lunedì 27 febbraio 2017

CINEMA - "BARRIERE" (RECENSIONE)

August Wilson è stato uno dei maggiori autori del teatro afroamericano; il Ciclo di Pittsburgh, serie di dieci pièce che raccontano protagonisti afroamericani durante tutto il secolo XX, è considerato il suo gioiello. All’interno del ciclo, il Premio Pulitzer lo vinse
per Fences nei primi anni 80, spettacolo teatrale portato a Broadway in una nuova versione qualche anno fa, e ora al cinema con gli stessi protagonistiViola Davis e Denzel Washington, qui anche dietro alla macchina da presa per la terza volta.
Come tutta la produzione di Wilson, anche Barriere (questo il titolo italiano del film) indaga sui rapporti di razza all’interno degli Stati Uniti, attraverso il punto di vista del microcosmo della città industriale di Pittsburgh, in Pennsylvania, nota come Steel City, la città dell’acciaio. Siamo nella metà degli anni 50, il protagonista è Troy Maxon, ex ottimo giocatore di baseball costretto dalla ghettizzazione dei neri nello sport durante gli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale a impegnare il suo talento nella modesta Negro League. Ora tira avanti come può, lavorando come spazzino per il comune, sedendosi nel tempo libero nel cortile dietro casa, dove la moglie Rose vorrebbe costruisca uno steccato di legno, mentre il figlio Cory cresce e vuole giocare nella squadra scolastica di football. Proprio dal rifiuto del padre del benestare per fargli proseguire la carriera, e dal provino per una borsa di studio universitaria a cui il figlio nonostante tutto si presenta, lo steccato, il fence, fra padre e figlio diventa una ferita insanabile.
Pieno di allegorie sulla situazione emotiva della famiglia e degli amici che la frequentano, ritrae una società americana di provincia in cui con difficoltà il colore della pelle sta diventando meno importante, fra le ritrosie di Troy che per il razzismo ha visto fallire il sogno della sua vita nello sport ancestrale della nazione, il baseball, e la nuova generazione di chi utilizza le doti fisiche per un’ascesa sociale legata al nuovo sport perfetto per gli afroamericani, il football. Lo steccato dovrebbe servire a custodire in sicurezza chi rimane all’interno, la famiglia, ma rischia di voler dividere chi merita di essere lasciato fuori. Troy e Rose rappresentano l’archetipo di chi ha sacrificato, per una seppur modesta sicurezza sociale e per l’amore del proprio partner, le aspirazioni personali. Scelte rimesse improvvisamente in discussione da una novità dirompente, che scatenerà almeno un paio delle molte scene madri di Barriere, in cui Washington carica il suo personaggio di una recitazione sorniona, con esplosioni facciali e mimiche, come ci ha abituato negli ultimi anni.
Un film in cui tutto è sistemato al punto giusto per dare un significato (superiore o immediato) ai gesti dei protagonisti, le cui dinamiche sono palesemente concepite per un mezzo diverso. Senza il respiro del cinema, ma neanche la gravitas concentrata del teatro, rimane uno spaccato interessante, seppur forse datato, delle dinamiche sociali afroamericane, regalando un’interpretazione che svetta fra le altre, quella della splendida Viola Davis.

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