giovedì 26 aprile 2018

CINEMA - Molly's Game Recensione

Aaron Sorkin esordisce nella regia e lo fa da spavaldo: gioca a carte scoperte, non bluffa mai, e va sempre all in.
Detto in altre parole: senza il filtro di un altro autore tra il copione e il film, con Molly’s Game spinge a fondo sullo stile e le tematiche che sono state sempre riconoscibili nelle sue sceneggiature, sia quelle per il cinema che quelle per la televisione; non si nasconde dietro un dito e anzi è decisamente più sfacciato del solito nel far emergere quel che della storia vera di Molly Bloom gli sta a cuore.
Che poi sarebbe una storia di una figlia e di un padre: anzi, di figlie - perché c’è anche quella dell’avvocato interpretato da Idris Elba - e di padri.
Che poi era la stessa cosa che stava alla base della sceneggiatura di Sorkin di Steve Jobs, e che sta alla base (figlie o figli che siano, reali o figurati) di praticamente tutto quello che scrive l’americano: pensate a The Newsroom, tanto per fare un altro esempio recente.
Sorkin interessa poco la parabola della Bloom in sé.
Gli interessa pochissimo della sua ascesa e della sua caduta, ma gli interessano - e molto - le modalità e le particolarità, che sono quelle che sono perché Molly ha la storia (familiare) che ha avuto.
Gli interessa ancor meno del poker, che pure racconta nel dettaglio, tanto per quanto riguarda la tecnica quando per l’atmosfera.
Gli interessa magari un po’ di più poter fare di Molly l’ennesimo personaggio eccezionale e superiore alla media, non necessariamente simpatico, che - a dispetto di tutto: degli errori, del contesto, di un mondo sempre più sporco e corrotto e stupido di lei - possa far riecheggiare con la sua moralità quella retorica sull’animo dell’America e degli americani che è l’altra sua grande ossessione, da sempre. La retorica buona e coinvolgente, e magari commovente, comunque costruttiva e non auto-referenziale di Codice d’onore o, ancora, di The Newsroom.
Ma soprattutto, in questo caso, a Sorkin interessa fare di Molly una figlia.
Nei primi minuti di Molly’s GameSorkin sembra cercare nel dinamismo delle immagini una specularità con il flusso delle parole, ma l’impressione scema abbastanza rapidamente: perché l’attenzione precipita presto oltre la superficie dello schermo, catturata dalla rete del racconto, della voce narrante e dei dialoghi, e dalla profondità dell’interpretazione di Jessica Chastain
Che non è mai stata così bella e - forse - non è nemmeno mai stata così brava, e lascia a bocca aperta tanto è magnetica e maestosa la sua interpretazione, che regge sulle sue seducenti spalle tutta la complessa architettura della scrittura sorkiniana.
Ma è la frantumazione temporale del film, l’aspetto formale che fa coppia con quanto raccontato da Molly’s Game: perché è in quel modo che Sorkin riporta sempre tutto all’infanzia della sua protagonista, al suo rapporto con la figura paterna incarnata da Kevin Costner, disseminando informazioni e indizi che poi saranno anche funzionali a una rivelazione (quasi in stile I soliti sospetti, volendo) in una scena nodale, bellissima e commovente che arriva verso la fine del film, quando papà Bloom, di professione psicologo e psicoterpista, regala a Molly la versione condensata in pochi minuti di anni di terapia, svelandole finalmente le chiavi per interpretare e capire il loro rapporto.
La durezza di papà Bloom fa poi a sua volta coppia con quella, meno esasperata, dell’avvocato Idris Elba: che chiede a sua figlia - quella stessa figlia che lo spinge e convince ad accettare la difesa di Molly, guarda un po’ - più di quanto la scuola non le chieda già. E allora c’è un dialogo, tra Chastain ed Elba, che un altro momento chiave per capire l’operazione effettuata da Sorkin in Molly’s Game: l'avvocato chiede se, secondo lei, stia esagerando con la figlia; la donna per tutta risposta le racconta di ragazzine pronte a vendersi per una bella borsa, e che quindi no, assolutamente no.
È questo, allora, che Sorkin racconta con il suo film. 
CINEMADi un mondo che si sta disfacendo, che si sta perdendo, di principi, valori e morali che si stanno sgretolando. Di padri che vogliono salvare dei figli, a costo di scontentarli.
Di persone che commettono errori, certo, come tutti, ma che sanno e rispettano il valore della parola data, della vita altrui, che vogliono mantenere pulito il loro nome. Persone che non sono conservatrici, per questo, ma che anzi, al contrario, sono le più progressiste di tutte.
Perché è il passato, quello buono, a dover fare da fondamenta a quello che verrà nel futuro, come i padri (e le madri) fan da fondamenta ai loro figli.

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