«Di Berlinguer mi affascina tuttora la sua drammatica guida in una delle stagioni più complesse: è stato un segretario che si è dovuto misurare con la tradizione comunista che finiva; con le aspirazioni dei ceti popolari, che cambiavano così profondamente; con grandi trasformazioni economiche non più riconducibili alla opposizione capitalismo-
anticapitalismo; con i temi internazionali nuovi, vedi l’apertura alla Nato; e infine con partiti che sembravano eterni, la Dc o lo stesso Psi, ma che di lì a poco sarebbero scomparsi. Il tutto poi nel quadro della sfida eversiva del terrorismo». Francesco Rutelli interviene nel dibattito aperto su l’Unità da Biagio de Giovanni. Distante per cultura politica – “la mia era di minoranza, democratico-liberale” -, anzi “anticomunista” nel senso di opposizione all’ideologia comunista, ma saldamente dentro la storia democratica del Paese, Francesco Rutelli ha ammirato molto Enrico Berlinguer, “leader dal volto umano”, vissuto nella fase più drammatica per l’Italia e anche per il suo partito e morto – questo colpisce in questa intervista – “nell’assolvimento della funzione della politica, come Moro, i Kennedy, Lincoln, Martin Luther King, Olof Palme, Gandhi”.
Lei, Rutelli, Berlinguer lo vede come un uomo politico chiuso nelle rigidità della sua cultura o come un leader in movimento verso qualcosa di nuovo? All’epoca lei era radicale, dunque lontano dalla storia comunista…
«Sì, io lo incontrai privatamente una sola volta, a casa sua, nel 1981, ero appunto nel partito radicale. Una grande figura borghese, geloso della sua vita privata, veramente un leader dal volto umano. Si dava poca importanza a questo, allora; ma amava la propria famiglia, e anche la libertà di salire sulla sua piccola barca, in Sardegna. A me affascina tuttora la sua drammatica guida in una delle stagioni più complesse: è stato un segretario che si è dovuto misurare con la tradizione comunista che finiva; con le aspirazioni dei ceti popolari, che cambiavano così profondamente; con grandi trasformazioni economiche non piu’ riconducibili alla opposizione capitalismo-anticapitalismo; con i temi internazionali nuovi, vedi l’apertura alla Nato; e infine con partiti che sembravano eterni, la Dc o lo stesso Psi, ma che di lì a poco sarebbero scomparsi. Il tutto poi nel quadro della sfida eversiva del terrorismo. Tutte cose enormi».
Alcune di queste sfide vinte – la lotta al terrorismo – altre più complicate – il governo, lo stesso rinnovamento del Pci. Il bilancio è difficile.
«Ma bisogna comunque avere un’alta considerazione della guida di Berlinguer davanti a questa complessità, malgrado avesse una forte opposizione interna. Il film di Veltroni per esempio illustra bene questa durezza del suo compito e anche la sua amarezza in molti passaggi».
Quanto gioca il mito nell’idea che si ha oggi del segretario comunista?
«L’aspetto drammatico della sua vicenda politica diventa tragico con la sua morte. Una morte “pubblica”, è la grandezza della morte legata alla politica che ha conferito una superiore autorevolezza allo scontro delle idee, come successe a Lincoln, ai Kennedy, a Martin Luther King, a Gandhi, a Palme. E ovviamente ad Aldo Moro, in un contesto ancora più tragico. Ecco, come queste personalità anche Berlinguer morì nell’esercizio del suo compito politico. Il fatto che oggi un politico non muoia più nella e per la sua missione testimonia l’esaurimento di ciò che è stata la sacralità della politica. Berlinguer è l’ultimo grande uomo politico che muore esercitando la sua funzione pubblica, e questo è un passaggio storico».
Da quello che lei dice emerge molto lo sforzo, la fatica di un uomo, quella fatica che ebbe poi quello sbocco tragico sul palco di Padova, fu un leader che in effetti ebbe sempre un rovello, cercò sempre qualcosa: anche qui ci sono opinioni diverse sui risultati concreti di questa ricerca.
«Io ovviamente non dò lezioni a nessuno, figuriamoci. Ha ragione Bassolino quando dice che il Pci di Berlinguer aveva cominciato a cogliere alcune sensibilità nuove: ma secondo me non è riuscito a guidarle, né a farle proprie fino in fondo. Io ricordo come il Pci fosse in ritardo sui diritti civili promossi dai radicali, anche se poi ebbe un grande ruolo nei referendum su divorzio e aborto; in ritardo sulla questione ecologica, che interpretava dentro il quadro della critica al capitalismo più che come un tema che si legava alle nuove problematiche planetarie della salute, del cibo, della tecnologia, e del vivere urbano. Oggi l’Unità affronta molto bene questi temi ma trent’anni fa non era così…»
I radicali in certi momenti furono anche molto severi con Berlinguer. E naturalmente i comunisti non sopportavano certe battaglie e il modo di condurle da parte del partito di Pannella. Lei che ricordo ha?
«Essere all’opposizione del consociativismo di quegli anni non mi ha mai portato ad essere contro il popolo della sinistra. Se poi lo confrontiamo col consociativismo di affari e corruzione degli ultimi anni… Ricordo che la sera del 15 giugno del ‘75 quando la sinistra vinse le regionali andai a sentire Berlinguer dal balcone di Botteghe Oscure. Avevo votato per i candidati radicali nelle liste del Pri… Ma quella era la festa del popolo democratico. E quando nel ‘93 Goffredo Bettini mi propone di fare il sindaco di Roma io sento vicino il popolo dell’allora Pds e poi lo sento ancora con l’Ulivo che nel 2001 prese oltre 16 milioni di voti. Quelle sono state coalizioni capaci di guidare il cambiamento».
De Giovanni nell’articolo che ha aperto questa discussione sull’Unità “stringe” molto Berlinguer nella cultura comunista, nel senso di una insufficienza a fare i conti con il 1917, con il tema del comunismo reale. La critica che la cultura liberale ha sempre mosso al Pci.
«Direi che Berlinguer sulla questione morale esprimeva una posizione non strumentale ma un’inquietudine sincera. Pero’ non fu conseguente sulla struttura dei rapporti, anche economici, con l’Urss. E qui si tocca un punto serio che riguarda l’oggi».
In che senso?
«Guardi, tanto meno io faccio prediche a Renzi, o polemiche con il Pd, so di testimoniare una posizione di minoranza. Ma osservo che un problema del Pd è che una sua componente, quella che viene dal Pci, ha visto il Pd come quarta tappa della trasformazione del Pci-Pds-Ds. Reichlin ha scritto che “è mancato un nuovo inizio”. Per me, la più significativa definizione della politica è quella di Hannah Arendt, secondo la quale “la politica è la facoltà di dare inizio”. Ecco, quello che è mancato al Pci di fronte al crollo storico del sistema comunista è stata la capacità di “dare una fine” al comunismo. E al Pd è mancata una rottura di continuità, con la definizione di una nuova cultura politica».
Ma non è un po’ superata questa polemica sul Pd come “nipotino” del Pci?
«Io posso capire i motivi pragmatici che hanno spinto Renzi a portare il Pd nel Pse ma penso che, proprio perché il Pd è una cosa completamente nuova, doveva creare un’aggregazione nuova; all’opposto dei conservatori inglesi che, avendo una collocazione propria, euroscettica, sono usciti dal Ppe. Testimonio le mie idee con il piccolo Partito democratico europeo, che raccoglie una ventina di partiti. Credo però che un forte merito di Renzi sia di liquidare la maledizione delle “due sinistre”. Per capirci, quella che ha spinto negli USA a votare Ralph Nader contro Al Gore, regalandoci il disastro degli 8 anni di Bush, che il mondo paga ancora oggi. Sta al Pd interpretare il senso di un vero riformismo democratico, con un ampliamento del gruppo dirigente e una più ampia riflessione su cultura, organizzazione, e un posto originale nel mondo».
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