Su Andrea Arnold, beniamina di tanti cinefili e di tanti festival internazionali, Cannes in testa, ho sempre covato qualche dubbio. Qualcosa, nel suo cinema, non mi convinceva mai completamente, vuoi per stile, vuoi per la storia. EAmerican Honey,
film ambiziosissimo e supponente, non solo conferma che tra me e la regista inglese le cose non funzionano proprio, ma che in questo caso i difetti del suo cinema sono di gran lunga superiori ai pregi.
Intediamoci: la Arnold gira molto bene, e ha uno stile potente. Sa bene dove mettere la macchina da presa, cosa e come e per quanto guardare, dove andare a cercare distrazioni e punteggiature. Non a caso i primi trenta minuti del suo film (che ne dura, senza alcuna reale giustificazione, ben 162) regalano l'illusione di trovarsi di fronte a qualcosa di degno di nota, magari anche di notevole.
In quella mezz'ora, assistiamo alla fuga di Star, 18enne senza un soldo e pochi legami familiari, che s'aggrega a una carovana di teenager scantenati e senza famiglia che girano l'America vendendo abbonamenti a riviste, guidata da una biondina tutto pepe e da uno
Shia LaBeouf che il vero motivo della scelta della ragazza.
Poi, però, non appena la
Arnold dovrebbe iniziare a dispiegare un racconto, a dargli una direzione e un'intento, le cose si complicano terribilmente. Non perché
American Honey non sappia dove andare o cosa dire: ma perché lo sa fin troppo bene, in maniera scolastica e retorica, con una messa in scena stucchevole a forza d'inutili manierismi e di simbolismi elementari serviti allo spettatore col cucchiaino ogni dieci minuti. E perché né viaggio né destinazione sono soddisfacenti.
Di questo questo road movie con innestata dentro una storia d'amore travagliato (quello tra la protagonista e il personaggio di un LaBoeuf che non appare molto in parte), Andrea Arnold vorrebbe fare un film sull'America di oggi, e della carovana di orfani per scelta una moderna tribù che l'attraversa alla ricerca di sé stessa e di un sogno.
E allora giù, via con i paesaggi industriali, i motel, le stazioni di servizio, i grattacieli, i Kmart e i Taco Bell, ma anche con i prati e i fiumi, e gli animali, di continuo: uccelli, ma soprattutto insetti, insetti in ogni dove, spruzzate il ddt, e poi anche un'orso (honey, nevvero?) e pure una tartaruga. Natura e cultura, abbiamo capito, Andrea Arnold.
E abbiamo capito come anche i tuoi rumorosissimi e vitalissimi (e spesso cretinissimi) adolescenti o post-adolescenti sono per te i nuovi Bambini Sperduti degli States, che vanno avanti a forza di risa e canzoni rap, alcool e coccole, canne e litigi. Sempre borderline tra legittima fame di vita e nevrosi, tra voglia di lavorare e illegalità, sempre a un passo dal trasformardi nel Signore delle Mosche versione midwest.
Già queste sono ovvietà, e non si può accettare, in American Honey, che tutto questo sia ulteriormente ridotto a un'estetizzazione formale che passa tanto dall'immagine quanto dalla musica onnipresente e martellante, né che la parabola di Star (personaggio francamente incomprensibile nelle sue scelte e nelle sue dinamiche, a meno di non bollarla come una scemetta) sia quella di un cammino smaccatamente carico di simboli e momenti di passaggio che si conclude nella maniera più banale possibile, quello di una scontata e nemmeno tanto giustificata rinascita dopo il classico bagno purificatore e pseudo-battesimale dalle acque di un fiume qualsiasi.
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