lunedì 6 giugno 2016

CINEMA - Un americano a Parigi torna in sala

Scommessa interessante quella di Valerio De Paolis, che con la sua casa di distribuzione, Cinema, porterà in sala uno dei musical più celebri di sempre. Un americano a Parigi torna perciò nei nostri cinema a partire dal 9 giugno, a distanza di sessantacinque
anni dal suo debutto. Diretto da Vince Minnelli, protagonista un esuberante Gene Kelly, insieme all’allora esordiente Leslie Caron (che in molti si affrettano a definire «non bella» secondo i soliti, incerti canoni, mentre chi scrive ritiene che la Caron bella lo sia eccome, con e senza sorriso, questo sì solare).
La trama è di quelle spensierate, volutamente ingenuotte, di quel periodo. L’americano Jerry Mulligan (Gene Kelly) rimane a Parigi malgrado la Seconda Guerra Mondiale sia conclusa da alcuni anni. Nella capitale francese ci resta per dipingere, così come hanno fatto i suoi beniamini; nulla però si muove finché inaspettatamente una ricca ereditiera non s’inventa mecenate. Il motivo è presto detto: non l’Arte di Jerry interessa alla facoltosa signora, bensì il pittore, del quale s’invaghisce. Quest’ultimo sta al gioco, aggiornando costantemente il suo amico Adam (Oscar Levant), un geniale pianista con l’ansia da prestazione e che quindi non ha mai tenuto un solo concerto, nonché la sua nuova conoscenza, il tenore di successo Henri Baurel (Georges Guétary).
Finché Jerry non incontra Lise Bouvier e se ne innamora perdutamente; amore ricambiato, se non fosse per un piccolo intoppo: Lise è promessa sposa ad Henri. Nel più classico degli happy ending, l’amore trionferà, per di più a suon di luci, musica, danza e colori.
Per comprendere la porta di quest’opera da sei premi Oscar («quando gli Oscar contavano qualcosa», direbbe lo snob guastafeste di turno), bisogna partire dalla fine, ovvero da quei mirabolanti 17 minuti di balletto. Un americano a Parigi è certamente film come non se ne fanno più, e come allora solo Hollywood poteva e riusciva a farli. Anche oggi, dopo oltre sei decadi, ci si domanda quante risorse, non solo economiche, un film del genere abbia richiesto. Tutto è ai massimi livelli, ed anche chi si dichiara allergico a musical e affini non può fare a meno di notare l’ambizione e la sfarzosità di ambienti e coreografie.
Dirlo oggi non ha senz’altro lo stesso senso di allora, ma davvero Gene Kelly si dimostra animale da palcoscenico. Comincia piano, per poi gradualmente appropriarsi della scena, che culmina con i succitati 17 minuti di performance, inutili quanto volete in termini narrativi, ma che rappresentano la componente che si è meglio conservata e che, a questo punto, è sicuramente destinata a conservarsi per altrettanti anni almeno.
Altra cosa rispetto all’espressionismo barocco di maestri come Powell e Pressburger, che con certi toni coltivarono una familiarità tale da non avere eguali, prima e dopo. In Un americano a Parigi è tutto molto meno greve, più spensierato come detto in apertura; è un’Hollywood che ancora non sa cosa le aspetta di lì a poco e può concedersi opere così sopra le righe ma efficacissime in termini d’intrattenimento.

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