In uno scenario alla John Ford, anche se un po’ più a sud del Grand Canyon e della Monument Valley, si aggira non un cowboy a cavallo, ma un ex galeotto barbuto che frequenta le riunioni degli alcolisti anonimi e ha un grande rammarico: non vede più
sua figlia da anni. La ragazza, però, che ha l’aria vispa e un sederino fasciato da un paio di hot pants su cui la macchina da presa di Richet inizialmente indugia, non è passata a miglior vita né è stata rapita, ma ha combinato un grosso guaio, è inseguita da un pugno di minacciosi narcos che sembrano usciti da Breaking Bad e torna da paparino in cerca di aiuto e protezione. Come non soccorrerla?
Questa, cari appassionati di action-movie e di noir e cultori della brevità sul grande schermo, è la trama del nuovo film di un regista che non è esattamente uno qualsiasi, visto che ha regalato alla Francia il bellissimo biopic in due parti Nemico pubblico n.1, eccellente prova d’attore di Vincent Cassel. Da quel racconto larger than life e produttivamente ingombrante, Blood Father sembra essere molto lontano. Eppure fra i due film un elemento comune esiste: un protagonista che dice no, che si ribella a regole e convenzioni in nome di una libertà, a volte perfino di un'anarchia, che comporta spesso il sacrificio.
Per il resto, lo sgualcito John Link è ruvido, viscerale, pragmatico, poco incline alle buone maniere e in qualche modo ironico proprio come il quasi b-movie che lo contiene e che, lontano dal classicismo e dall'epicità dell’odissea di Jacques Mesrine, segue la polverosa strada di uno scappa-scappa senza eroi né tanto meno attempati kick-ass, in una citazione di certo cinema degli anni ’70 (Don Siegel) e in una vicenda decisamente "ad altezza uomo".
Non gonfia la sceneggiatura di Peter Craig (anche autore del romanzo di partenza) Jean-François Richet, perché in una corsa un po’ scontata verso una probabile catastrofe, gli basta affidarsi al suo solido mestiere e alla verve di un Mel Gibson in stato di grazia, ancora leone e ancora muscoloso, e soprattutto ancora in grado di padroneggiare la commedia trasformandola in un road trip sanguinante che si porta dietro la mitologia di un attore che ha contribuito a fare la settima arte.
Tra parentesi, sembra che l’australiano inviso ai tabloid dell’emisfero occidentale abbia chiesto, durante le riprese, continue delucidazioni sulle emozioni provate da Link, non per incapacità di comprenderlo, ma perché consapevole che il cuore pulsante di Blood Father è l’amore di un genitore per la figlia, e poco importa se per salvarla colui che lo interpreta debba passare attraverso un’evidente seppur non voluto omaggio a Mad Max o ad Arma letale (con motociclette e camper annessi).
Ecco, perfino in mezzo a proiettili che strisciano, inseguimenti e hard talk, ciò che interessa più di ogni altra cosa a Richet è la verità del personaggio, che in virtù di una regia non roboante (favorita dall’assenza di un budget robusto) riesce a balzare subito in primo piano. Tuttavia John Link è importante anche per ciò che simboleggia. Perché il tatuatore che all’occorrenza guida un’Harley Davidson come come se non avesse fatto altro per tutta la vita in realtà rappresenta qualcosa che non ha proprio nulla di testosteronico e su cui è urgente riflettere: un mondo rimasto ai margini, un’America degli "sfavoriti", di coloro che non possono uscire dalle maglie della società capitalista inventandosi un'esistenza altra, e che perciò vivono la frontiera non come una zona di conquista, ma come una casa scomoda e la metafora di un confine invalicabile fra ricchezza e povertà. Povertà, abbiamo detto, e non assenza di dignità.
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