sabato 24 dicembre 2016

RECENSIONE FILM - "PASSENGERS"

Passengers è un film digitale.
Non nel senso dell'impronta, o degli effetti speciali (che pure ci sono in abbondanza), ma nel senso che vive di opposizioni binarie: di 0 e di 1, e che dall'alternanza degli
opposti nasce e si costruisce.
Da un lato il film di fantascienza, non privo di ambizioni "esistenziali" riguardanti le possibilità del costruire e del vivere umano, dall'altro il romance fatto di aneliti, amplessi, conflitti e riappacificazioni.
Da un lato Gravity, dall'altro Titanic.
Da un lato l'uomo, dall'altro la donna; da un lato il meccanico che sa costruire e aggiustare tutto con le mani, dall'altro la scrittrice che pensa, interpreta, immagina, racconta.

In mezzo, lì in mezzo, scorre il fiume, come diceva qualcuno. Il fiume di un film fatto, apparentemente, di levigata ingenuità, ordinaria avventurosità e squinternato romanticismo.
E però, sotto questa superficie fin troppo elegante e patinata, lungo i corridoi eleganti e asettici della nave spaziale Avalon (che ricorda la Axiom di WALL•E), Passengers sembra nascondere una vera sotterranea aspra, quasi caustica, sottilmente provocatoria; una vena che - sebbene Morten Tydlum alla regia, più che Jon Spaiths alla sceneggiatura, cerchi di far vibrare senza mai però arrivare fino in fondo, in tutti i sensi - fornisce al film la sua vera elettricità.
Chi se ne importa, infatti, dei ragionamenti critici sul conflitto tra una tecnologia cui ci si affida troppo ciecamente e il potere salvifico e inimitabile della natura umana, della solita, sottile ma sempiterna odissea spaziale di kubrickiana memoria.
Chi se ne importa della filosofia, delle menate su cosa significhi davvero cominciare una nuova vita, e sui modi attraverso i quali riempire di senso un'esistenza.
Chi se ne importa, tutto sommato, anche della storia d'amore tra Chris Pratt e Jennifer Lawrence, quando questa perde i suoi elementi conflittuali davanti a un pericolo superiore che rende necessario fare fronte comune.
Sì, perché quello che conta è che Passengers racconti la storia del più grande stalker dell'universo. Di un futuristico Robinson Crusoe che, pur di non fare la fine di Tom Hanks in Cast Away e mettesi parlare con un pallone (in questo caso, da basket), e non accontentandosi del Venerdì androide che ha a disposizione sull'astronave sulla quale si è risvegliato con 90 anni di anticipo, si sceglie con cura (altro che apparente casualità!) una bella addormentata da risvegliare e condannare al suo stesso destino: quello di trascorrere il resto della vita su una nave da crociera spaziale, soli. Ma soli soli.
Se il personaggio di Pratt proprio simpatico non è - un po' per via delle azioni moralmente riprovevoli che compie guidato dall'ormone, un po' perché, svegliata la sua bella, si trasforma in un cucciolone un po' appiccicoso e dall'occhio costantemente languido -, nemmeno quello Lawrence brilla per affabilità.
Stalker bonaccione lui, emblema di una maschilità geneticamente prepotente ma stolida, algida e dominatrice donna in carriera lei: che decide di approfittare sessualmente della prestanza del suo unico compagno di viaggio e gettarsi a capofitto nella scrittura di un romanzo dove si parla di lei, di lei e della sua disavventura spazio-temporale.
È bello, in Passengers, non parteggiare per nessuno dei due. Osservarli come soggetti di un esperimento, con lo stesso sguardo complice ma distaccato del barman robot di Michael Sheen: che non si sa perché sembra essere modellato sul Lloyd di Shining, senza essere altrettanto inquietante.
È (quasi) interessante andare a vedere le implicazioni morali e pratiche del gesto di Pratt, che ovviamente a un certo punto verrà scoperto dalla Lawrence e che la farà giustamente andare su tutte le furie.

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