sabato 21 gennaio 2017

CINEMA - “Arrival”: gli alieni di Villeneuve

Come si chiede giustamente Tim Urban, in uno dei più esaustivi articoli riguardo alla questione: “Dove sono tutti?”.
La domanda non è che una versione informale del paradosso di Fermi, l’annoso problema della discrasia tra lo sterminato numero di corpi celesti presenti
nell’universo e il fatto che finora nessuna forma di vita extraterrestre si sia mai palesata al nostro cospetto.
Arrival, del canadese Denis Villeneuve (dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang), salta a piè pari la problematica, e ci presenta uno scenario nel quale gli alieni si mostrano senza alcun pudore, in maniera talmente eclatante da risultare quasi sfacciati. Così, in 12 regioni del globo terrestre, con una logistica che gli umani stentano a codificare, appaiono 12 enormi astronavi: immobili gusci oblunghi dalla superficie opaca, sospesi a qualche metro dalla superficie terrestre.
Spetterà al fisico Ian (Jeremy Renner) e alla linguista Louise (Amy Adams) gestire la comunicazione con gli ospiti spaziali; i due incarnano idealmente il più classico binomio di approcci “teorici” alla realtà: quello scientifico e quello filosofico.
Amy Adams e Jeremy Renner
Amy Adams e Jeremy Renner
Ma il paventato dualismo tra i protagonisti (“Non è il linguaggio, ma la scienza, ciò che sta alla base della realtà”, dirà Ian a Louise appena si incontrano) si assesterà immediatamente, prendendo forma di un rapporto di subordinazione: quello del sapere matematico rispetto alla conoscenza filosofico-linguistica; sarà infatti Louise a entrare in contatto con gli alieni.
Nella capacità della studiosa di apprendere la lingua degli alieni è racchiuso uno dei nuclei tematici del film: il linguaggio, in quanto struttura che determina lo sviluppo cognitivo degli individui – durante il film viene esplicitamente citata l’ipotesi di Sapir-Whorf che lega indissolubilmente linguaggio, pensiero e cultura di provenienza – è la chiave di volta per far compiere un drastico salto evolutivo alla razza umana. Poiché gli alieni sono portatori di una razionalità che si sottrae alla linearità del tempo, al suo scorrere dal presente verso il futuro – un modo di pensare non teleologico, non finalistico –  anche l’uomo che riesca a impadronirsi di tale lingua potrà pensare (e abitare) il tempo in maniera “multidirezionale”. Avere, cioè, davanti a sé la prospettiva di un tempo che si dispieghi simultaneamente nel presente, nel passato e nel futuro.
Per necessità narrative, questo dirompente stravolgimento cognitivo avviene di colpo, con la nostra Louise che di punto in bianco riesce ad accedere a una dimensione temporale che potremmo definire circolare (oppure totalmente dispiegata) non appena apprende i primi rudimenti del nuovo idioletto.
E questo snodo narrativo rappresenta anche la chiave di volta per comprendere la necessaria deriva “paradossale” che la pellicola acquista nel suo sviluppo. 
Quando infatti Louise comincia ad avere a che fare con la nuova concezione del tempo, il problema di raccontare la storia dal suo punto di vista diventa il problema di raccontare a noi, spettatori dotati di una logica lineare, vicende che non si svolgono più all’interno di un tempo strutturato in una successione o catena sequenziale.
 Rimarremo quindi stupiti nel trovarci di fronte alla protagonista che interagisce con il futuro per decidere il presente: ulteriore suggestione pescata direttamente da alcuni sviluppi del pensiero contemporaneo. Infatti, senza inoltrarci troppo nei tecnicismi, alcune ipotesi formulate ai margini della cibernetica suggeriscono la possibilità di “cause retroattive”; in parole povere: la circostanza che a causare un evento nel presente concorrano avvenimenti collocati nel futuro.
A questo punto vi domanderete com’è il film. Considerato il livello di complessità del tema trattato, Arrival è un buon compromesso tra un’esperienza visivamente suggestiva e una pellicola autoriale. Uno sci-fi bello, che invita a ragionare; ma non perfetto.
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Amy Adams nei panni della linguista Louise Banks
Ciò che non riesce a fare è mettere in scena quel concetto di alterità assoluta che potrebbe essere uno dei motivi per il quale non siamo ancora riusciti ad entrare in contatto con gli “alieni”.
A pensarci bene, seppure in grado di vivere in una temporalità molto più complessa della nostra, i concilianti extraterrestri di Arrival – giganteschi e comunicativi calamari – non sono altro che ipotetici animali terrestri super-evoluti; esseri con i quali, in fin dei conti, condividiamo alcuni presupposti fondamentali (in primis il linguaggio), che fanno sì che un rapporto sia ancora ‘possibile’.
Come scriveva Wittgeistein, portando alla luce il concetto della differenza irriducibile tra forme di vita: “se un leone potesse parlare noi non lo capiremmo”; è una delle ipotesi, prese in considerazione dall’articolo di Tim Urban, che spiegherebbe il silenzio degli extraterrestri: la loro incompatibilità “ontologica”.
Sotto questo punto di vista, il monolite di 2001 Odissea nello Spazio, distante da qualsiasi rappresentazione antorpomorfica o zoomorfica, resta ancora una delle più lungimiranti incarnazioni cinematografiche di questa alterità estrema. Quella che costituisce il più profondo segreto del cosmo: al quale ci possiamo avvicinare nebulosamente con l’intuizione, sui cui effetti possiamo speculare grazie alla fantasia e le cui tracce possiamo intravedere nei voli pindarici della nostra immaginazione; ma che, per ora, non possiamo pensare compiutamente.

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