lunedì 2 gennaio 2017

CINEMA - "SILENCE" (recensione)

Lo ha detto lui, Martin Scorsese himself, che se Silence tratta questioni di scottante attualità, nell'era dell'ISIS e dei Trump, è una coincidenza. Perché il film - a lungo cercato, studiato, ostinatamente voluto - sarebbe potuto anche arrivare qualche anno
fa: in un momento storico non lontanissimo eppure diverso; un momento dove la questione dello scontro tra culture e fedi, della volontà di conquista e degli arroccamenti integralisti, era ancora in una fase meno esplosiva e borderline col disastro.
E allora facciamo come dice lui: limitiamoci a considerare Silence fuori da ogni contingenza temporale, come un film che si occupa di faccende spirituali (ma secolari, nel senso che son secoli che si affrontano) riguardanti l'eterno dialogo tra l'uomo e la fede, le sue manifestazioni, la sua interiorizzazione. Il film di un regista che il rapporto con la Chiesa e il Divino l'ha sempre messo dentro i suoi film, e quasi sempre in maniera conflittuale, lacerante, ossessiva.

Da questo punto di vista, Silence non fa eccezione. Il racconto del viaggio in terra giapponese del giovane padre gesuita Sebastião Rodriguez - viaggio che è un po' ricerca di un mentore perduto, un po' missione evangelica, e che si trasforma in una via Crucis che lo metterà di fronte alle complessità e alle contraddizioni del suo agire - ossessivo lo è di certo. Conflittuale e lacerante, non parliamone nemmeno: almeno per i suoi protagonisti.
Nel personaggio di Andrew GarfieldScorsese sintetizza e tensioni, facendone l'esploratore del (suo) rapporto con la religione.
Padre Rodriguez prega, piange, ama, soffre. Benedice, dice messa, comunica e confessa. Si esalta e si commuove di fronte alle comunità che tengono accesa la fiammella della fede in Cristo, nonostante le repressioni cruente del governo nipponico che l'avversa; si dispera quando i "suoi" fedeli muoiono da martiri, mentre lui si nasconde, per sopravvivere in nome della sua missione.
Padre Rodriguez fugge, patisce il freddo, la fame, il caldo, la sete: la sua è una vera via Crucis. Tanto che vede- letteralmente - il volto di Cristo riflesso nel suo. Si sente prescelto, messo alla prova; accarezza con vanità e allucinata perversione il pensiero del martirio, dell'essere il prescelto per un nuovo amaro calice.
Tutto ripiegato su sé stesso, sulla sua personale visione di Dio e del suo calvario, patisce la sofferenza altrui da lui causata ma ne è spettatore; in fondo, la considera il prezzo da pagare per la sua missione e la sua fede, assolvendosi da ogni peccato con più indulgenza di quanto assolva - con fastidio crescente - il fragile Tadanobu Asano, che abiura ogni volta che vede la sua vita in pericolo.
Padre Rodriguez soffre, e pensa gli si possa aprire la via al misticismo grazie a questo, e non lascia spazio alla Misericordia se non in extremis, quando cede ai suoi persecutori per salvare vite innocenti, abiurando formalmente il suo credo: calpestando, letteralmente, un'immagine sacra. Ma, anche in quel caso, il suo gesto è vissuto quasi egoisticamente, stoicamente: è la sua croce.
La sua prospettiva cambia solo quando ritrova un maestro che lo mette di nuovo di fronte a sé stesso, non all'immagine cristologica che di sé ha avuto, e alla natura violenta e arrogante dell'imperialismo missionario. Un incontro che lo ridimensiona, lo turba, lo relativizza; che gli illustra nuove possibilità (per quanto obbligate) nel nome di un apertura mentale e di un ripiegamento nel privato che sono possibilità di accrescimento e illuminazione.

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