«Ormai quando penso a questo disco l’aggettivo che mi viene in mente con più frequenza è “colorato”. Sembra una scemenza, una frase fatta, ma se ci ragiono mi rendo conto che già l’associare una connotazione cromatica a una esperienza auditiva è un fatto per nulla banale».
L’impresa non era affatto scontata: quattro inverni dopo, reagire artisticamente a un lavoro coraggioso, epico, monumentale com’era stato il precedente Fantasma (caratterizzato da arrangiamenti orchestrali, brani lunghi, strutture armoniche complesse, densità e profondità di temi e significati) ha riportato il gruppo di Montepulciano lungo un sentiero forse in parte già noto a loro stessi e ai propri estimatori, ma che di fatto nuova linfa e nuove idee ha fornito lungo il percorso creativo.
E quindi, piuttosto che ricerca del colpo di teatro inedito, o dell’originalità a tutti i costi, i Baustelle tornano ad affinare le loro armi musicali migliori, preferendo mescolare alcuni ingredienti e accostamenti senza rivoluzionare l’assetto base del proprio menù, già di suo così tipico. Dieci canzoni più due strumentali in L’amore e la violenza: torna l’influenza di Battiato e con lui anche Pulp e Matia Bazar, Abba e Bacharach, oltre al Kraut Rock e alle colonne sonore di certi film cult. Tastiere analogiche, suoni d’orchestra sinfonica riprodotti dal Mellotron, e poi densi giri di basso e batterie programmate, parti vocali talvolta alterate dall’uso di filtri e vocoder alla maniera dei Daft Punk.
Un macro-cosmo musicale che odora di vinile e fa riferimento al pop-rock europeo di fine anni Settanta e primi anni Ottanta, epoca stimolante/pionieristica quando si è trattato di innovare attraverso soluzioni atipiche, fuori dagli schemi. «Dei Baustelle si dice spesso “sono citazionisti”- prosegue Bianconi – . E chi non lo è? O meglio, tutti i compositori lo sono quando sono davvero liberi. Questo è forse il nostro disco più libero, da questo punto di vista. In una intervista di qualche mese fa ho detto che L’amore e la violenza sarebbe stato un disco “oscenamente pop”.
Questo intendevo: musica che non si vergogna di esibire la propria libertà. Si potrà dire che sia bello o brutto, riuscito o non riuscito, ma di sicuro questo disco più che altri nostri precedenti lavori osa nel mettere in collisione materiali e ispirazioni musicali di matrice diversa, nel mischiare alto e basso, sacro e profano».
Nell’album troverete brani più movimentati e sgargianti, parenti dei primi due lavori, così come le ballate sinuose che avevano già impreziosito I mistici dell’Occidente. Quel gioco d’azzardo tra alto e basso, sacro e profano, sesso e religione, amore e morte. Sullo sfondo, un vecchio continente in guerra: migrazioni da oltremare, stragi di terrorismo a insanguinare le metropoli europee, ventate gelide di populismo tra le macerie e governi che cadono.
In mezzo a questo sfacelo, a Giubilei della Misericordia e a dispacci da tv satellitari, tra le armi di distrazione di massa di smartphone e social network, giunge stimolante la voce della band. “Amore” e “Violenza” convivono come Yin e Yang, due lati della stessa medaglia, apocalittici e integrati proprio come sulla copertina del disco, ennesimo rimando alle pellicole di genere degli anni Settanta.
E gli estremi opposti, solo in apparenza contraddittori, fioriscono spontaneamente nel post-moderno dei Baustelle, tra filosofia e melodia pop, tragedia e glamour, musica sinfonica e discoteca, sacro e profano, fetish e attese messianiche. Il tempo appare sempre troppo poco per la piena comprensione dei tempi che ci troviamo a vivere: meglio allora dare spazio a frammenti di storie, scritte e cantate con la giusta dose di empatia, stralci di umane emozioni da cogliere in un attimo e poi via. Ricordi di flirt con troppi strascichi, adolescenze irrequiete, morti sulla circonvallazione e cadaveri portati in riva dalle onde, tutti attori da sempre protagonisti assoluti nelle cineprese musicali del gruppo toscano.
Ma sopra a tutto questo, ben oltre le mode stagionali e il sussidiario illustrato di umane miserie, una voglia – forse un po’ consolatoria ma necessaria – di considerare la vita (così tragica e stupida, tutta immagine ed estetica) un’esistenza sciocca e inutile, unico stratagemma questo per aiutare a vivere gustando fino all’ultimo tanto la superficie quanto la profondità. Solo così, in questa maniera vagamente Zen, si potrà restare giovani e vivere felici, consci della sublime, assurda fugacità del percorso.
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