giovedì 9 marzo 2017

CINEMA - "IL DIRITTO DI CONTARE"

“Ho fatto solo il mio lavoro”. Riassume così i suoi oltre trent’anni di attività aeronautica e aerospaziale, Katherine Johnson, la matematica afroamericana protagonista del film “Il diritto di contare” di Theodore Melfi, in uscita oggi nelle sale italiane. Tratto dal libro “Hidden
figures” (che è anche il titolo originale del film) dell’afroamericana Margot Lee Shetterly, la pellicola racconta la storia misconosciuta di Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tre delle human computers dietro ai voli spaziali dei programmi Mercury e Apollo, tre persone che per il genere e il colore della pelle non ebbero vita facile in un ambiente lavorativo maschile (la Nasa) e in una società dove bianchi e neri vivevano ancora rigidamente separati (la Virginia segregazionista degli anni ’50 e ‘60).
A metà del ‘900 si è in una fase di transizione: l’era dei computer è agli albori, calcoli complessi, come le traiettorie di volo o il flusso d’aria ideale sul profilo alare di un aereo sono fatti a mano, dagli human computers appunto. Arrampicati su lunghe scale per coprire di calcoli ogni angolo di lavagne giganti, vestiti e mani sporche di gesso. Un lavoro lungo e a volte ripetitivo, che, oltre a competenze matematiche, richiede pazienza, precisione e perseveranza, caratteristiche attribuite per lo più alle donne nello stereotipo imperante.
Gli human computers sono spesso female computers, in fondo alla scala gerarchica delle strutture di ricerca. Alle donne in molti ambiti di ricerca è riservato questo ruolo di servizio. E’ tradizione. Il che non impedisce loro di prendersi belle soddisfazioni: ad Harvard l’analisi paziente di foto e foto di stelle permette all’astronoma Williamina Fleming una classificazione stellare in base alla temperatura valida tuttora e a Henrietta Leavitt un metodo per la misura delle distanze tra le galassie.
Anche in Italia funziona così. Nel gruppo di ricerca romano di Edoardo Amaldi a metà degli anni ’50 si fa ricerca sui raggi cosmici, il flusso di particelle che arrivano incessantemente dallo spazio. Si è agli albori della fisica delle particelle elementari e si cercano nuovi corpuscoli, e tra questi è aperta la caccia all’antiprotone. La particella di massa uguale a quella del protone ma carica opposta non è mai stata osservata.
Per farlo si lanciano grandi palloni stratosferici che trasportano una sorta di speciali lastre fotografiche, le emulsioni nucleari, che restano impressionate in alta quota dall’eventuale passaggio di particelle. Poi, però, a terra ci vogliono ricercatori che analizzano una dopo l’altra le decine e decine di lastre, per scovare le tracce di particelle nuove. Ancora una volta un lavoro che richiede pazienza e precisione. A Roma lo fanno Giustina Baroni e Augusta Manfredini. Proprio loro individuano la traccia di quello che sembra effettivamente il primo antiprotone, “Faustina” lo chiamano.
Ce n’è abbastanza per chiedere una verifica agli amici/colleghi d’oltreoceano che stanno per mettere in funzione i primi grandi acceleratori di particelle, antesignani di quelli oggi esistenti al Cern di Ginevra. Amaldi chiede all’amico Emilio Segrè di collaborare, esponendo le lastre nell’acceleratore di Berkeley in California invece di farle volare in alto sui palloni, un bel guadagno nell’efficienza dell’esperimento.
Nell’accordo, le lastre di Berkeley saranno esaminate a Roma. Segrè scrive ad Amaldi che ci vogliono “scanners” ben addestrati. Le nostre female scanners, Baroni e Manfredini, lo sono, e scovano quello che senza ombra di dubbio è un antiprotone; a Roma lo battezzano “Letizia”. Una scoperta che frutta il Nobel a Segrè e al collega Owen Chamberlain nel 1959. In fondo l’antiprotone l’hanno prodotto con il loro acceleratore americano.
Certo le nostre female scanners non furono costrette a subire la discriminazione razziale imposta alle female computers afroamericane della Nasa: un’area di lavoro separata da quella delle colleghe bianche, un tavolo espressamente indicato per le “colored computers” in caffetteria. Ma la determinazione con la quale portarono avanti la propria passione è la stessa.
Johnson e compagne calcolano traiettorie di volo, angoli di lancio, punti di rientro di capsule. Nel 1959 Johnson, insieme al collega Ted Skopinski scrive le equazioni di lancio di una navicella in volo balistico, ponendo le basi per il volo suborbitale di Alan Shepard nel 1961. E l’anno dopo, quando tocca a John Glenn il primo volo orbitale americano, è proprio l’astronauta a chiedere che “la ragazza”, cioè Johnson, controlli manualmente i calcoli della traiettoria della sua Friendship 7. Ma il contributo che Johnson stessa ritiene più significativo nella sua carriera è il calcolo per assicurare il rendezvous tra l’Apollo 11 su cui è rimasto Michael Collins e il Lem che riporta un po’ rocambolescamente a bordo Armstrong e Aldrin freschi dell’impresa leggendaria dello sbarco lunare.
Le figure nascoste di queste storie finalmente vengono alla luce. Non è solo un risarcimento alle persone, ma anche una restituzione della complessità con cui si costruisce il pensiero scientifico e tecnologico.

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