sabato 4 marzo 2017

NUOVO FILM SU KING KONG - RECENSIONE

 È il 1973. Richard Nixon ha appena annunciato il ritiro dal Vietnam, ma non tutti tirano un sospiro di sollievo.
C'è chi si chiede a cosa sia servita, la guerra, se la guerra finisce così: a chiederselo è lo stesso colonnello che è convinto di "saper riconoscere un nemico" quando se lo
trova davanti, ma che invece si illude e basta. Perché il colonnello Preston Packard che ha lo sguardo allucinato di Samuel L. Jackson, quando si trova di fronte un gorilla di 30 metri per 10.000 tonnellate, si convince che sia un nemico più perché gli mancano i Vietcong che perché gli ha abbattuto un po' di elicotteri e fatto fuori un po' di uomini.
Perché gente come Packard, che finita la guerra potrebbe tornare di corsa a casa ma è ben felice di fare da scorta armata a una missione scientifica su un'isola misteriosa e inesporata, circondata da un sistema temporalesco perpetuo, è un po' come le creature che andranno a popolare il MonsterVerse voluto dalla Legendary Pictures: "senza coscienza, nessun raziocinio, solo devastazione".
Ora, detto questo, non è che Kong: Skull Island sia un film che va caricato di significati profondi, di afflati pacifisti, di questioni ideologiche che non ha mica tanta voglia di portare avanti.
Quello di Jordan Vogt-Roberts è un gigantesco pop-corn movie, un film che se ne frega del budget che ha a disposizione e vuole rimanere nella serie B, perlomeno con la testa, o con un piede. Un filmone divertente ed elettrizzante, senza troppi grilli per la testa: che però, nel suo insistere sull'ossessione bellica che ha accompagnato gli Stati Uniti e il loro cinema per tutti i Settanta e gli Ottanta, e che sembra montare di nuovo, mette un paio di puntini sulle i che non fanno mai male.
Certo, con tutti i suoi elicotteri, i caschi dei soldati con le scritte, i disegni, le foto, le sigarette e le fiaschette, con le chitarre grasse e psichedeliche dei Creedence o dei Black Sabbath a fare da tappeto sonoro (ma ci sono anche gli StoogesBowie, i Chamber Brothers, gli Hollies e i Jefferson Airplane), il Vietnam reale o metaforico di Vogt-Roberts assomiglia molto più a quello di Thomas Magnum o di Rick Simon che a quello di Oliver Stone o Francis Ford Coppola. E la fotografa pacifista ma determinata di Brie Larson è una perfetto Angelo di Charlie in missione nella giungla, con la piega sempre perfetta che nemmeno Farah Fawcett.
Perché sono quegli anni Settanta e Ottanta lì, quelli dei telefilm che ancora non si chiamavano serie tv, l'orizzonte estetico di riferimento di Kong: Skull Island. Estetico e non solo, visto che tutto il film - quando non esplode negli spettacolari momenti in cui il magnetismo animale di Kong e la sua brutalità muscolare invadono lo schermo e le menti - è permeato dallo stesso spirito auto-ironico e cazzone dei Magnum P.I., dei Simon & Simon, delle Charlie's Angels o degli A-Team.
Jordan Vogt-Roberts non si prende troppo sul serio: e questo è bene. Non prende troppo sul serio i suoi personaggi: e questo può anche essere un bene, se si entra nella sua ottica. L'unico che prende davvero sul serio è Kong: e questo è meglio.
Il suo Kong non è solo il più grande, tra quelli che l'hanno preceduto, e il più incazzato, ma forse anche quello più buono, più malinconico, più umano: quello che lotta contro gli Strisciateschi perché gli hanno sterminato la famiglia, che gli umani li protegge che da loro si fa proteggere, e che di Brie Larson - tutt'altro che una damsel in distress - s'innamora ma senza nemmeno provarci a rapirla e portarla con sé: perché sa qual è il suo posto e quale quello di Tom Hiddleston, che pure è sempre troppo pettinato e troppo inerte. 

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