Soltanto briciole e promesse mancate dai Paesi più ricchi per la salvaguardia della fauna mondiale. Troppo poco, soprattutto in confronto a quanto fanno i Paesi più poveri. Lo dimostra uno studio
dell'università di Oxford, pubblicato anche su Sciende Daily, che ha creato "l'Indice della salvaguardia della fauna mondiale" in collaborazione con Panthera, organizzazione che si dedica alla tutela dei grandi felini.
L'indice stilato da Peter Lindsey, ricercatore associato di Panthera che ha diretto il gruppo di studio insieme ai colleghi del gruppo di ricerca per la conservazione di Oxford (WildCRU), comprende 152 nazioni, delle quali valuta l'impegno e i risultati per la salvaguardia della fauna, in particolare dei grandi mammiferi, visto che sono soprattutto specie come le tigri, i gorilla e i leopardi ad essere a maggiore rischio di estinzione.
Lo studio ha utilizzato tre parametri: la porzione di territorio nazionale occupata da grandi mammiferi ancora presenti nel Paese (nazioni con più specie diffuse su aree più vaste hanno avuto punteggi più alti); la percentuale di territorio su cui si muovono gli animali sottoposta a tutela ambientale (punteggi più alti per aree protette più vaste); infine i soldi spesi per la salvaguardia delle specie, sia all'interno della nazione o all'estero, in relazione al Pil.
I risultati della ricerca mostrano che i Paesi più poveri sono in genere più impegnati nella protezione della biodiversità rispetto alle nazioni più ricche, con il 90 per cento dei delle nazioni nel Nord America e dell'America Centrale e il 70 per cento di quelli africani posizionati più in alto nell'indice dell'impegno per la salvaguardia della fauna. Così, nonostante le difficoltà rappresentate da povertà e instabilità politica in gran parte del continente, l'Africa sta facendo grandi sforzi per l'ambiente, con Botswana, Namibia, Tanzania e Zimbabwe in testa alla lista.
Per contrasto, gli Stati Uniti, che pure sono abitati da grandi mammiferi a rischio, sono al 19° posto. I Paesi europei, all'apparenza tanto preoccupati per la perdita di biodiversità del pianeta, sono insieme a quelli asiatici tra i contribuenti meno generosi, con un quarto delle nazioni impegnate in maniera deludente.
Lindsey ha dichiarato a Sciende Daily: "Non sarà possibile salvare animali ad alto rischio come tigri, leoni e rinoceronti a meno che ci si un impegno collettivo, globale". Studi recenti indicano che il 59 per cento dei grandi carnivori terrestri e il 60 per cento dei grandi erbivori sono al momento a rischio di estinzione. "Tutti i Paesi dovrebbero fare di più - sottolinea David Macdonald, direttore di WildCRU e co-autore dello studio - Il nostro indice dice quanto sta facendo ciascun Paese e fornisce un parametro di quanto i Paesi ricchi stanno effettivamente contribuendo agli sforzi delle nazioni in difficoltà". Lindsey ha anche indicato in che modo le nazioni con più possibilità economiche dovrebbero aiutare le altre:
"Ci sono tre modi - indica il ricercatore - prima di tutto possono reintrodurre nel loro territorio animali scomparsi, possono destinare più porzioni di territorio ad aree protette e naturalmente investire di più su questi due punti anche all'estero".
Spesso però si è assistito, da parte delle nazioni più ricche, a un impegno rimasto sulla carta. Basti pensare che nel 1992 durante il summit di Rio i Paesi sviluppati promisero di investire almeno 2 miliardi di dollari l'anno per aiutare i Paesi più poveri nella salvaguardia dell'ambiente, ma al momento i contributi dei Paesi ricchi si limitano soltanto alla metà (1,1 miliardi di dollari l'anno) di quanto promesso.
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