lunedì 26 febbraio 2018

CINEMA - Omicidio al Cairo Recensione

Omicidio al Cairo inizia e finisce nelle stesse strade della capitale egiziana. In mezzo, però, la scintilla che diede al via alla rivoluzione egiziana, che trasformano l’accoglienza riverente della prima scena alla macchina di poliziotti in borghese che fa
un giro per ritirare il pizzo dai commercianti locali, in un violento pestaggio. Lo svedese di origine egiziana Tarik Saleh, scrive e dirige un film che lo porta alle radici, in cui al centro ci sono le tante contraddizioni di una metropoli come Il Cairo. Le sue oscure pieghe notturne, le infinite vite parallele che si dipanano nelle sue strade, mentre dall’alto, rinchiusi negli eremi ricchi e protetti, funzionari, uomini d’affari, artisti e corrotti di vario genere si affacciano ai loro balconi, a gustarsi qualche alito di vento serale dopo una giornata di calore intenso, fumandosi una sigaretta.
Sono in tanti a prendersi una pausa, a fumare una cicca via l’altra: il protagonista Noreddin, ufficiale di polizia mediocre e corrotto, dalla carriera in veloce ascesa per i giri di corruzione che lo legano allo zio generale; una giovane cameriera dell’Hotel Nile Hilton, testimone dell’assassinio di una nota cantante che dà il via alla storia. Siamo nel 2011, e mentre iniziano i primi scricchiolii nell’equilibrio instabile del governo di Mubarak, che alla fine diventeranno crolli in sequenza e decine di migliaia di cittadini in piazza a fare la rivoluzione, Omicidio al Cairoincornicia un caso di cronaca nera. Una storia nella Storia, che segnerà per Noreddin il punto di non ritorno nella sua routine annoiata, il momento in cui un sussulto di orgoglio lo porterà ad aprire gli occhi sul punto dolente dell’Egitto e dei cittadini che dovrebbe proteggere: l’assenza totale di giustizia.
Il passato arriva a esaurimento, mentre il futuro è ancora da scrivere, e purtroppo sappiamo essersi dimostrato una delusione rispetto alle speranze di vera democrazia, in un Paese in cui l’unica certezza sembra essere che il conto, salato, lo pagano sempre i cittadini delle classi più umili, come gli immigrati dal Sudan. Costretto a spostare il film a Casablanca, per una decisione dei servizi di sicurezza egiziani a pochi giorni dall’inizio delle riprese, Saleh ha creato un film basato sui piccolo gesti di corruzione quotidiana. Il passaggio di mano dei soldi, le formalità con cui ci si rivolge alle persone in base al rango sociale, le dinamiche di strada e di condominio.
Lanciato dalla commedia di culto di inizio secolo Jalla! Jalla!, ritroviamo in un ruolo da protagonista, ben più dark, Fares Fares, svedese anche lui, ma nato in Libano, ultimamente caratterista di varia umanità mediorientale anche a Hollywood. Il film ricorda i thriller paranoici degli anni ’70 del nuovo cinema americano, nel suo raccontare una persona totalmente isolata, con i suoi scheletri nell’armadio, che si ostina a cercare la verità e volere puniti i responsabili, mentre intorno nessuno è interessato, se non ad affossare l’indagine.
Un mondo pieno di grigi, contraddizioni e un sistema di legale illegalità talmente radicato negli anni da diventare connaturato. Isolando pochi giorni e una vicenda di cronaca realmente accaduta - l’assassinio della celebre cantante libanese Suzanne Tamin da parte di un parlamentare e uomo d’affari - Tarik Saleh ritrae il nemico con cui il 25 gennaio 2011, proprio il giorno dedicato alla festa della polizia, il popolo cairota si riversò in piazza.

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