Non sappiamo perché, a 72 anni e dopo aver già dato alle stampe un'autobiografia, il leggendario chitarrista Eric Clapton abbia deciso di raccontarsi anche al cinema.
Ipotizziamo che non l'abbia fatto per mania di protagonismo, ma probabilmente per lasciare che il mondo lo ricordasse con un'immagine diversa da quella dei lunghissimi anni del suo declino da alcolista e tossicodipendente, quando si presentava ubriaco ai concerti e se ne andava dopo poco accapigliandosi col pubblico e lasciandosi andare ad esternazioni vergognose, all'opposto delle sue vere convinzioni. Forse per far capire che esiste una seconda possibilità anche dopo esser scesi nella notte più buia, e che si può risalire dal baratro e tornare alla luce. Non sapremmo spiegare altrimenti Eric Clapton: Life in 12 Bars, il lunghissimo biopic diretto da Lili Fini Zanuck e incentrato essenzialmente – per la delusione dei musicofili – sulle vicende private del chitarrista.
L'Inghilterra di metà anni Sessanta era un crogiolo di energie giovani e creatività di cui la musica è stata l'espressione più rivoluzionaria. Con i Beatles, i Rolling Stones e il proliferare delle prime moderne rock band, nacquero anche altri gruppi musicali, per un pubblico di gusti più raffinati, che si riallacciavano alla grande tradizione nera del blues americano , contribuendo alla riscoperta di un genere fino ad allora trascurato nella madrepatria, come ricorda grato nel film l'amico fraterno di Clapton, il grande bluesman B.B. King. Eric Clapton, come John Lennon, vive un'infanzia difficile, forse anche più triste della sua, convinto a lungo che i nonni siano i genitori e con una madre troppo giovane che lo abbandona e lo rifiuta più volte, determinando in negativo (come si sottolinea nel film) il suo rapporto con le donne. La musica, anche per lui, è un'ancora di salvezza: a forza di ripetere i riff del blues dai dischi che ascolta a ripetizione, affina le sue capacità tecniche, e giovanissimo debutta sulle scene musicali inglesi: prima con gli Yardbirds, poi con John Mayall, infine coi Cream, conquistando anche l'America. E fa amicizia con Jimi Hendrix, che si esibisce con loro.
Sui muri scrivono "Clapton è Dio”, ma lui si sente sempre fuori sintonia con gli altri, diverso. Non sa rendersi simpatico: anche quando ascoltiamo le sue interviste giovanili abbiamo l'impressione di sentire un genio arrogante, incline all'autocommiserazione. I folli anni Sessanta, le feste, le droghe, la prima compagna, la francese Charlotte Martin, poi l'innamoramento folle per Pattie Boyd, moglie del suo migliore amico, George Harrison. L'infelicità di essere ancora una volta respinto, un disco composto tutto per lei e un altro rifiuto, la depressione, l'alcool, i vent'anni di buio totale. C'è tutto questo in questo film sicuramente impietoso e sincero, che lo stesso Clapton dichiara di aver visto con difficoltà. Perché indulge proprio, come dicevamo, sugli episodi privati che diventano pubblici, sulle figuracce e sulle crisi artistiche: lunghi periodi in cui sembra che l'unico essere di sesso femminile che abbia mai veramente amato sia la sua Cherry Red Gibson, che gli è rimasta fedele per 40 anni, fino ad essere messa all'asta nel 2004.
Vediamo il mitico Slowhand entrare e uscire dal rehab, gonfio, senza più l'innocenza e la bellezza giovanile, una vita che non è più quella di un musicista sempre in cerca, capace di abbandonare un gruppo quando diventa troppo commerciale. Dopo averla rincorsa a lungo, ha finalmente a fianco la donna che voleva, ma ormai è troppo tardi: davanti ha solo la strada dell'autodistruzione. Così la lascia quando una starlette italiana, Lory Del Santo, poco più che un capriccio, gli dà un figlio bellissimo che lo rimette al mondo e lo induce a riprovarci. Durerà 4 anni, fino al momento del tragico volo di Conor dalla finestra di un grattacielo. E dal dolore estremo rinasce prima il musicista e poi l'uomo, oggi in apparenza pacificato, con una nuova moglie e due figlie piccole. L'unico vero momento commovente di questa lunga elegia arriva però verso il finale, con la benedizione e la vera e propria dichiarazione d'amore di B. B. King, l'amico di una vita, sul palco. Ma per chi non lo ha conosciuto di persona la sua resta una figura opaca, in una storia di espiazione che potrebbe riguardare chiunque.
Non si può dire che Eric Clapton: Life in 12 Bars non sia interessante (tutti i documentari sull'arte lo sono), ma gli manca la scintilla di un punto di vista autoriale e la scelta di un percorso che non perda di vista l'identità dell'artista che sceglie di raccontarci, con dovizia di immagini e particolari, un po' alla rinfusa. Accompagnato dalla voce dello stesso Clapton, con foto e pezzi di repertorio, brani musicali e voci senza volto, questo film racconta la vita di un uomo che ha scelto il blues forse soltanto perché era triste dentro. Ma a conti fatti, fermo restando il suo straordinario contributo al mondo della musica, la sua figura umana non sembra giustificare la celebrazione e le sue peculiarità di musicista restano inesplorate.
Vorremmo concludere con un pensiero per le compagne di questi personaggi (un'altra cosa che li accomuna), diafane e bellissime fanciulle a cui viene succhiata la vita e l'energia, disposte a farsi tradire restando fedeli, a farsi coinvolgere nelle dipendenze altrui, a essere idolatrate sulla carta e trattate come oggetti nella vita. Se capiamo benissimo che di questi geni folli nell'impeto della gioventù ci si possa anche innamorare, non capiremo mai il bisogno di vivere della luce riflessa di qualcuno che della sua adorazione per te fa grandi proclami solo quando non ci sei, perché che in fondo ama (o può amare) soltanto se stesso.
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