Una giovane donna si ritrova chiusa, contro la sua volontà, in una clinica psichiatrica. E tra il personale para-medico c’è il suo stalker, l’uomo che l’ha perseguitata talmente
tanto da crearle quello stesso squilibrio che poi l’ha fatta finire in quella situazione.
Come premessa, è decisamente angosciosa, non c’è che dire. E in questa premessa c’è tutto il nocciolo di Unsane, che però Steven Soderbergh, da vecchia volpe qual è, ha avvolto in qualche altro strato di racconto tanto per rendere le cose più interessanti.
Perché è chiaro che questa donna tanto bene non sta, perché il trauma subìto ha lasciato segni importanti: e allora le cose stanno davvero come le vediamo? Davvero Sawyer è sana di mente come dichiara? Davvero quello lì è il suo stalker, o lei lo proietta su un’altra figura maschile? E quel paziente gentile, che l’aiuta e le dà consigli, e che le crede, chi è davvero?
Non c’è niente di meglio dell’ambiguità, per rendere una situazione claustrofobica e angosciosa ancora più claustrofobica e angosciosa. Niente di peggio per la nostra sanità mentale di non sapere se quello che vediamo e che crediamo - che poi spesso sono esattamente la stessa cosa - è reale oppure no.
Ed è curioso - e forse, chissà, non casuale, che questo film Soderbergh l’abbia girato con un iPhone, con uno di quei telefonini che oggi noi usiamo per registrare con foto e video la realtà oggettiva, e che si servono per realizzare scatti e racconti che trasmettano, sui social, una ben precisa e studiata immagine di noi stessi. E quindi torniamo di nuovo all’interrogativo di prima: cosa è vero e cosa no di quello che vediamo? Di quello che vede Sawyer, di quello che vediamo noi spettatori?
Allora è altrettanto importante sottolineare qui che Soderbergh questa ambiguità la mantiene solo fino al momento in cui gli fa comodo. Fino a quando come regista non ha bisogno di liberarsi da ogni zavorra superflua e limitarsi a trattare la materia essenziale: per giocare come si deve - e in maniera così divertita da essere liberatoria - col genere, e per lasciare che emergano anche i sottotesti chiaramente politici di Unsane.
Facciamo una pausa, e limitiamoci a dire che reale di sicuro è il divertimento di un regista che non si è ancora stancato di giocare col cinema, le sue tecnologie e i suoi modi di racconto. Che con Effetti collaterali aveva già percorso la strada del thriller psicologico, ma che qui si spinge ancora più avanti, e osa di più, proprio perché si permette di andare all’essenziale, di usare gli strumenti più agili e basilari che siano funzionali alla storia che vuole raccontare, e alle emozioni che vuole suscitare.
E poi riprendiamo, e approfondiamo il discorso, magari rivelando qualche dettaglio di trama che qualcuno - che è avvisato - non vuol leggere, ma che comunque non va a incidere sull’apprezzamento del film.
Perché sì, dice Soderbergh, e anche abbastanza presto: tutto quello che vediamo è reale.
È reale la situazione assurda e mortale nella quale si ritrova la sua protagonista, reale la sua prigionia, reali i suoi nemici e i suoi amici, reale è quel sistema che interna le persone, magari per brevi periodi, per lucrare sulle loro assicurazioni sanitarie.
Ma reale più di ogni altra cosa è la violenza sottile e affilatissima dello stalking, della molestia ripetuta e ossessionante, di un modo di essere maschi che è figlio della debolezza e dell’idea perversa del possesso.
Di fronte a queste evidenze, Unsane diventa ancora più angoscioso e inquietante. E in qualche modo, così facendo, Soderbergh invita a credere alle vittime, senza grazie al cielo limitarsi a questo: perché fa della sua sfortunata eroina una donna che è capace di riprendersi in mano la sua vita: a mali estremi, estremi rimedi.
Anche se le cicatrici rimarranno sempre lì, e per sempre.
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