Vaudou, voodoo o vudù che dir si voglia, sempre di spiriti si tratta. Veri o ritenuti tali, onnipresenti, benevoli o dispettosi, «domiciliati» nella natura, capaci d’introdursi nei corpi umani. Dimentichiamo per un attimo gli anemici zombie in
bianco e nero di Bela Lugosi e la macabra carneficina di pollame in Angel Heart e sintonizziamoci sul canale della storia di queste credenze così tanto bistrattate.
C’era una volta l’antico regno di Dahomey, situato nell’Africa Occidentale e divenuto l’odierno Benin. In quella culla emise i suoi primi vagiti il vaudou che, nella locale lingua fon, significa «Dio». Da lì mosse piccoli passi in Togo, in Ghana e in Nigeria, fino a crescere e scavalcare l’Atlantico, insediandosi nei Caraibi, ad Haiti, in Brasile e in Louisiana. Erano i secoli della tratta e arrivò Oltreoceano insieme agli schiavi negri, stipati per mesi nelle stive delle navi e vestiti solo di un antico credo tramandato oralmente. Oggi, nel mondo, ci sono 50 milioni di praticanti e due musei del vaudou (il Soul of Africa Museum in Germania, a Essen, e il Museo Vodoo in Francia, a Strasburgo).
Si diceva Dio, ma non uno e trino, bensì multiplo e sfaccettato. Nel vaudou vige una rigida gerarchia. In cima, non all’Olimpo, ma comunque a capo di un ricco pantheon, vi è Mawu, «l’Inaccessibile», il Dio supremo. Creatore increato, non ha forma, non interviene nella vita degli uomini. L’espressione Mawu significa «Dio è grande» e viene pronunciata in apertura di una cerimonia. Vengono poi i Lao, migliaia di divinità inferiori, per lo più forze della natura, potenze sovrannaturali, anime di defunti. Avi, pietre e sassi, alberi e foreste, vento e pioggia. Sovraintendono ai destini degli uomini, sono loro alleati o nemici. Papa Legba è il capo di quest’orda di spiriti, il messaggero divino, assimilabile al nostrano San Pietro. Tra i ranghi comandati da Legba spiccano Ogou Feray, dio della guerra e dei fabbri, Sakpata, dio della malattia e della guarigione, Hebieso, dio del temporale e del fulmine. Mama Wata è la dea delle acque, temuta dai pescatori. Amatissimo è Dan, il pitone arcobaleno, animale sacro e intoccabile. Citarli tutti sarebbe impresa faraonica ed è tempo di toccare il vaudou con mano. Perché una cosa è certa: in Africa si percepiscono rumori e spostamenti d’aria non dettati dal vento. Mistero puro.

LA CERIMONIA IN DIRETTA
L’esperienza più forte è a Ouidah, capitale vaudou del Golfo del Benin. Cerimonia in onore del dio del ferro. In ordine sparso, più emotivo che temporale, ricordo bambini allegri, una capretta legata a un banano, un ragazzo d’ebano che percuote un tamtam, galline fameliche che razzolano a vuoto, una giovane donna che canta e agita delle maracas. Poi l’entrata di lei, l’enorme sacerdotessa (mambo) avvolta in un batik sgargiante. Dentro un tempietto di cemento, il feticcio del dio: un cumulo piramidale ricoperto da terra, cera gialla, sangue, alcool, piume e chiodi. Emana un odore acre, sa di altromondo. Non assomiglia ai feticci robotici del cartone animato Kirikou, tanto meno la matrona adiposa, che officia al rito, ha il vitino da vespa della bella strega Karabà. Tutti portano sul viso le scarifications, tagli inferti alla nascita per marcare l’appartenenza a un’etnia ma anche la devozione a una specifica divinità. Il donnone lancia noci di cola e ne interpreta la disposizione, le irrora d’alcool, incita con le mani i tamburi e i canti, sgozza e dissangua il primo pollo, il secondo, poi il terzo e il quarto. Va a slegare la capretta. «No, la capretta no», penso. Il coltello lungo e affilato trapassa la peluria, incide la gola. L’animale tace, colma due ciotole di legno con il dono della sua vita, calda e fluida. La mambo distribuisce il sangue sul feticcio e attorno al tempietto. Lancia il cadavere dell’animale sulla sabbia. Il tutto avviene sotto i nostri sguardi, ignari di quella lingua incomprensibile e attoniti davanti alla gioia unanime che accompagna il sacrificio. Il corpo e il sangue.
L’esperienza più forte è a Ouidah, capitale vaudou del Golfo del Benin. Cerimonia in onore del dio del ferro. In ordine sparso, più emotivo che temporale, ricordo bambini allegri, una capretta legata a un banano, un ragazzo d’ebano che percuote un tamtam, galline fameliche che razzolano a vuoto, una giovane donna che canta e agita delle maracas. Poi l’entrata di lei, l’enorme sacerdotessa (mambo) avvolta in un batik sgargiante. Dentro un tempietto di cemento, il feticcio del dio: un cumulo piramidale ricoperto da terra, cera gialla, sangue, alcool, piume e chiodi. Emana un odore acre, sa di altromondo. Non assomiglia ai feticci robotici del cartone animato Kirikou, tanto meno la matrona adiposa, che officia al rito, ha il vitino da vespa della bella strega Karabà. Tutti portano sul viso le scarifications, tagli inferti alla nascita per marcare l’appartenenza a un’etnia ma anche la devozione a una specifica divinità. Il donnone lancia noci di cola e ne interpreta la disposizione, le irrora d’alcool, incita con le mani i tamburi e i canti, sgozza e dissangua il primo pollo, il secondo, poi il terzo e il quarto. Va a slegare la capretta. «No, la capretta no», penso. Il coltello lungo e affilato trapassa la peluria, incide la gola. L’animale tace, colma due ciotole di legno con il dono della sua vita, calda e fluida. La mambo distribuisce il sangue sul feticcio e attorno al tempietto. Lancia il cadavere dell’animale sulla sabbia. Il tutto avviene sotto i nostri sguardi, ignari di quella lingua incomprensibile e attoniti davanti alla gioia unanime che accompagna il sacrificio. Il corpo e il sangue.
In uno sperduto villaggio nell’altopiano di Kpalimé, in Togo, assistiamo invece a un rito egun-gun, legato al culto dei Gédé, gli spiriti dei morti. L’intera comunità sta celebrando con balli, musiche, fuochi e pentoloni fumanti una giovane deceduta da poco e incapace di trovare pace nell’aldilà. Li chiamano «revenants» sono i morti viventi, gli zombi. Una donna florida e vestita all’occidentale dirige le danze. Smania, si contorce, ha gli occhi bianchi, capovolti. È in trance, sta comunicando con la ragazza uccisa poche settimane prima dal suo fidanzato, per errore. Lui, per timore di essere condannato e allontanato dal villaggio, aveva denunciato l’improvvisa scomparsa della giovane, senza confessarne l’uccisione. Lei allora decide di svelare alla medium il luogo della sua sepoltura affinché giustizia sia fatta. Ci fa sapere, sempre tramite la medium, che le sarebbe gradito un obolo per propiziarsi il riposo eterno. Il pensiero volge al purgatorio e ad altre intercessioni di simoniaca memoria.

A Togoville il culto vaudou impregna tutta la città. Sulla piazza del mercato vi è il grande feticcio che veglia sugli scambi e i commerci. Nel quartiere Xetsiavi vi è un feticcio femmina, situato dentro un recinto, che protegge le donne durante il parto e poco distante il feticcio maschio, simbolo di fertilità, che guarisce e fa piovere. Attirati dagli schiamazzi che provengono da un cortile interno, ci ritroviamo sotto una grande tettoia di lamiere costruita attorno a un imponente albero a palabras. Sono in tanti. Qualcuno grida «Iovo! Iovo!» che, nel dialetto ewe, significa «fantasma» e di fatto denota noi bianchi. Dei ragazzini ci portano sedie di plastica, si lasciano fotografare, gli anziani hanno deciso che possiamo assistere. Stanno omaggiando gli avi. Iniziano le danze, i canti. Ci sono preti (hougan) e sacerdotesse, vestono di sangallo bianco, portano collane, bracciali, cavigliere e anelli di pasta di vetro e conchiglie. Si spruzzano addosso alcool di palma. Al centro vi è anche lo stregone, il boko. I partecipanti invocano il lao dei morti, si accordano alla cadenza delle sekere, le zucche musicali. Donne anziane e corpulente ballano incurvando la schiena in avanti, imitano lo sbattere d’ali di galline, ruotano su se stesse, alzano le braccia al cielo dondolando il capo. È un rito d’incorporazione, una possessione volontaria e provvisoria. Dicono, poeticamente, di «essere «cavalcati dagli spiriti». Il sacrificio alla divinità è già stato eseguito: una lunga scia bordeaux sul pavimento raccoglie nugoli di mosche e formiche. Un montone di quattro anni. Poi ci viene chiesto di andare, il resto del rito, segreto, è riservato agli iniziati.
Da notare che sempre a Togoville si erge la cattedrale di Notre Dame du Lac, edificata nel 1910. Negli anni ’70 un’apparizione della Vergine Maria a due guaritrici togolesi e a un prete italiano fu riconosciuta come miracolo dalla chiesa cattolica che offrì una statua della Vergine alla cittadina, rendendola luogo sacro anche per i cattolici. I conti sincretici tornano: i loa gli spiriti del voudou sono spesso assimilati ai santi e alcuni sacramenti cattolici, come il battesimo, sono stati assorbiti dal culto vaudou. Candele, ceri, campane e croci sono stati presi in prestito dal cattolicesimo romano, mentre danze, invocazioni, incantesimi, tamburi e culto degli avi provengono dalla tradizione animista africana.

È come se religioni monoteiste, sciamanesimo, culto romano dei Lari e dei Penati, induismo e altri politeismi orientali si fossero dati appuntamento in un unico credo. Certo, per necessità. Il vaudou nasce nei villaggi e nelle selve dell’Africa nera come il cristianesimo nelle catacombe romane. In sordina, in clandestinità. Camuffando i propri riti sotto le vesti del cattolicesimo, gli adepti ne hanno preservato la sopravvivenza. Ne hanno fatto luogo spirituale di assembramento identitario, resistendo all’oppressione colonialista, opponendosi all’assimilazione forzata a lingue, usi e credenze dell’uomo bianco. Negli anni ’50 il Vaticano ha finalmente fatto pace con il vaudou. Dal 1996 è religione di stato in Benin ed è liberamente professato negli stati limitrofi. Cattolici, musulmani e atei sono anche adepti del vaudou che, in una dimensione di naturale convivenza, si pone come un sostrato profondo e comune alle religioni «importate». Ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, tutti indistintamente, ricorrono alla panacea animista per propiziarsi gli spiriti, per curarsi, per ottenere amore, successo, salute, per vendicarsi di sgarbi subiti, per comunicare con i defunti, per conoscere il futuro, per farsi indicare la via da seguire. Ma in che modo?
A Lomé, la capitale, nel quartiere d’Akodessewa, vi è il più rinomato mercato per feticheurs, i guaritori, frequentato anche da clienti e curiosi. Sono circa 90 gli stand dei venditori di «ingredienti» tradizionali. Cortecce, piume, pelli di serpenti, rettili e animali selvatici, ossa di uccelli, crani di cani, bufali, facoceri e coccodrilli. Ma anche tartarughe, pipistrelli e camaleonti essicati, zampe di conigli, pietre trafitte dai fulmini, conchiglie. Una vasta e maleodorante farmacia in cui gli acquirenti si procurano i rimedi prescritti dal guaritore in cambio di somme anche astronomiche.
Per quanto difficile da concepire razionalmente, la comunione con gli spiriti e le divinità africane è un viaggio attraverso il tempo, un ritorno verso la terra delle origini. Il vaudou è una cultura, un’eredità, una filosofia, un’arte, un linguaggio, una medicina, uno stile di musica e di danze, un potere, una tradizione orale e rituale. Un modus vivendi. Niente a che vedere con i cliché cinematografici hollywoodiani e letterari haitiani che continuano a nutrire l’immaginario collettivo di suggestioni associate al satanismo, al cannibalismo, alla stregoneria. La «bambolina vaudou», tanto per citarne una. Certo, per esistere esiste. Realizzata con materiali naturali (rami o tronchi d’albero, prodotti derivati dal miele, tessuti), modellata secondo la morfologia dell’individuo da «incantare» e contenente un suo effetto personale, è una sorta di telecomando con cui, a distanza, si esercita un potere sulla persona presa di mira. Nel bene o nel male. Per farla guarire o soffrire.
Il vaudau non è né solo bianco né solo nero. Affascina e spaventa. È cruento e primitivo, tollerante e pacifico. Picasso e Braque hanno sintetizzato nello loro tele le forme scultoree delle statuette rituali. Basquiat ha fatto sua l’estetica essenziale dei visi e delle fisionomie di feticci e bambole vaudou. Jimi Hendrix, i Rolling Stones e i Prodigy lo hanno suonato e cantato. Conoscere per credere?

Nessun commento:
Posta un commento