Sotto pressione per diversi giorni, nelle ultime 48 ore Matteo Renzi ha scelto la strada della controffensiva politico-mediatica per uscire da una congiuntura astrale davvero complicata. Si erano allineati nel modo peggiore tutti i pianeti del sistema: l’attacco di Juncker, i tracolli dei titoli bancari, le
difficoltà parlamentari sulle unioni civili, le perduranti polemiche su Banca Etruria fino alle contestata ipotesi di un incarico ai servizi per l’amico Carrai. Un ginepraio dal quale il governo ha avuto difficoltà a districarsi. E come sempre gli accade in questi casi, Renzi ha usato tutte le armi a sua disposizione: persino un po’ di miele (che non è esattamente il suo ingrediente abituale) come quando, nell’intervista di ieri al Sole 24 ore, ha chiarito: “Io non alzo la voce. Alzo la mano. E faccio domande”. Ha minacciato, ha preteso, ha rivendicato, ha spiegato, seguendo il classico copione renziano: alzare la posta e poi mediare per ottenere il risultato.
Nessuno può dire che questa fase molto difficile sia terminata. Anzi. Soprattutto l’attacco di Juncker e il bis del capogruppo del Ppe Weber non fanno presagire nulla di buono e infatti è stato questo uno-due che ha fatto balenare nelle stanze di palazzo Chigi l’antipasto non tanto di un “complotto” ma dell’inizio di una campagna tesa ad isolare l’Italia. Se è così, c’è da dire che la campagna non è partita bene: l’Europa ha abbassato i toni, la Borsa, grazie a Draghi ma anche a Padoan, è risalita. Ma comunque stava a Renzi reagire. E lui lo ha fatto alla sua maniera, occupando il centro del ring con interviste, in Parlamento, con la conferenza stampa di ieri, la presenza a Porta a Porta da Vespa, e persino con il viaggio a Losanna per perorare la causa di Roma per le Olimpiadi 2024. “Vado io al Senato a chiudere la discussione” prima del nuovo voto di palazzo Madama sul ddl Boschi; ha organizzato l’intervista col direttore del Sole Roberto Napoletano per dare un messaggio tranquillizzante ai mercati e ai risparmiatori; e soprattutto ha mosso tutte le pedine possibile nella “euro polemica”.
Juncker vuole interlocutori? Eccolo servito, a Bruxelles Roma ha mandato il politico Carlo Calenda, così non si sono più scuse, e infatti Juncker ha abbassato la cresta; quello stesso Juncker a cui è stato gentilmente fatto sapere che il suo capo di gabinetto Martin Selmayr deve rientrare un po’ nei ranghi: “quello si crede Napoleone”, come dicono a palazzo Chigi. Dopodiché “le domande” del premier italiano all’Europa (“alzo la mano”) sono state pesantissime. A muso duro. Dove sono le risorse per la ripresa? Dov’è una politica seria sull’energia? E sull’immigrazione non si sta forse procedendo “a zig zag”? Dietro le cornate a Bruxelles si nasconde poi la “ciccia”, cioè la questione della famosa flessibilità. Roma ne ha bisogno, soprattutto in vista di un 2017 che si prospetta anch’esso non facile – stante la lentezza con cui matura una timida ripresa – ed è su questo che Bruxelles deve mollare. Come al solito Renzi vuole trattare lui in prima persona. E se con la Commissione europea i rapporti comprensibilmente sono freddi, tutte le carte sono puntate su Berlino. Già, perché Renzi annette una grande importanza al vertice nella capitale tedesca del 29 con Angela Merkel, un faccia a faccia che dovrebbe stemperare le polemiche e soprattutto mettere sul tavolo uno scambio vantaggioso per entrambi, all’incrocio fra economia (la flessibilità per l’Italia, appunto) e immigrazione (gli aiuti alla Turchia per alleggerire l’afflusso dei migranti). E anche sul piano interno il presidente del consiglio ha messo nuovamente la faccia sul passaggio parlamentare più importante di questo inizio anno, l’ultimo voto del Senato sul ddl Boschi, portando a casa un ennesimo voto favorevole. L’importante era avere i numeri: su una modifica costituzionale è normale che ci siano consensi esterni alla maggioranza di governo, anche se da sinistra si polemizza sui sì di Verdini.
Voleva esserci, Renzi, in aula, per rimandare tutti al referendum dell’autunno e confermare che quell’appuntamento sarà decisivo per il prosieguo della sua stessa vita politica. Una vittoria dei No non potrebbe non avere conseguenze sulla sorte del governo: un’affermazione in fondo ovvia ma che ribadita in aula ha avuto l’evidente sapore dello spartiacque dell’intera fase politica. Una iper-politicizzazione dell’appuntamento, un modo per ottenere una legittimazione politica per l’ultima parte della legislatura.
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