La genetica ha origini lontane. Il punto d’avvio, a metà Ottocento, è la ricerca di un monaco agostiniano boemo di umili origini, Gregor Mendel, che alternava la cura delle anime a quella dell’orto del monastero di Brno. Del successo con le anime non è dato sapere, ma lo studio dell’orto portò risultati
certi: dalle 24000 piantine di piselli coltivate negli anni il monaco scoprì certe regolarità nel passaggio di fattori caratteristici (colore, ruvidità del seme…) da una generazione alla successiva, enunciando le note leggi dell’ereditarietà.
Da questo punto di partenza prende l’avvio la mostra DNA, il grande libro della vita. Da Mendel alla genomica, aperta a Roma fino al prossimo 18 giugno.
In occasione del 150enario delle scoperte di Mendel, il Palazzo delle Esposizioni cura il terzo capitolo di un trittico dedicato alla biologia e all’evoluzione, che ha già registrato i grandi successi delle mostre dedicate a Darwin e all’Homo sapiens.
La formula espositiva è ben collaudata: curatori di grande livello (Telmo Pievani, filosofo delle scienze biologiche all’università di Padova, Bernardino Fantini, storico della medicina a Ginevra, Sergio Pimpinelli, genetista, e Fabrizio Rufo, bioetico, entrambi di Sapienza, Università di Roma) exhibits ben congegnati, precisione nel semplificare il contenuto senza perdere la complessità di un campo di ricerca che nella seconda metà del Novecento è letteralmente esploso, consegnandoci con la clonazione, gli OGM, le terapie geniche, una serie di spinosissime questioni che i curatori affrontano con attenzione, dando al visitatore gli strumenti per formarsi un’opinione solida.
Obiettivo di tutto rispetto in epoca di fake news e “fatti alternativi”. E sarà forse questa preoccupazione che ha indotto i curatori ad allestire una mostra ricchissima di temi e pannelli esplicativi, con il rischio di perdersi nella quantità di aspetti affrontati. Al visitatore conviene scegliere i propri ambiti di interesse e costruirsi un percorso.
La prima parte dell’esposizione segue lo sviluppo storico del tema, focalizzando l’attenzione prima di tutto sull’opera di Mendel, che- ironia della sorte- pubblicò più come meteorologo che come genetista ante litteram, e nonostante la fiducia nei risultati trovati lo inducesse a confidare ai confratelli “verrà il mio tempo”, rimase misconosciuto tra i contemporanei.
Solo trentacinque anni dopo, al volgere del secolo, ottenne il giusto riconoscimento postumo, quando le leggi dell’ereditarietà furono riscoperte e poste alla base della genetica.
Si segue poi lo sviluppo di una disciplina che attraverso la prima metà del Novecento arriva alla scoperta della doppia elica di Watson e Crick, ma anche di Rosalind Franklin, soffermandosi su alcuni interessanti (e dimenticati) contributi italiani, come gli studi sulla ibridazione del frumento di Nazareno Strampelli, un agronomo divenuto suo malgrado campione mussoliniano della battaglia del grano, che era riuscito a selezionare varietà di grano più produttive, aumentandone di 20 milioni di quintali la produzione nazionale annua nel 1940.
Un’intuizione, quella di Strampelli, che lo rese di fatto il padre della prima “rivoluzione verde”, un metodo che nel 1970 avrebbe fruttato il premio Nobel per la pace all’agronomo statunitense Norman Borlaug.
La mostra, però, non ha un carattere soltanto storico, la seconda parte è dedicata alle questioni di frontiera della genetica odierna. Per arrivarci si attraversano un paio di sale di alleggerimento: un grande exhibit, il “bosco dei cromosomi”, dove è possibile curiosare tra caratteristiche fenotipiche, come il colore degli occhi, e malattie, come il diabete, per scoprire a quale gene o gruppo di geni sono attribuibili, o qual è la loro distribuzione mondiale.
E poi si attraversa la “Cloning hall of fame”, vero e proprio omaggio ai cloni animali e alla loro storia, dal primo animale clonato, un rospo negli anni Cinquanta, alla pecora Dolly, star assoluta, di cui sono esposti al limite del feticismo, non solo le ossa ma anche un maglione, bruttino, tessuto con il suo vello.
In questa parte della mostra si spazia dalle terapie geniche, alla medicina personalizzata, dall’archeogenetica alla genetica forense. Ma la questione che forse oggi lascia più domande aperte è il futuro della genomica. Nel 2000, l’annuncio in pompa magna di Blair a Clinton del completamento del sequenziamento del genoma umano, cioè la lettura e quindi l’identificazione della sequenza di tutto il DNA contenuto nel genoma umano, produsse un risultato inatteso: l’assunto per cui a organismo complesso (l’uomo) dovesse corrispondere un numero alto di geni era sbagliato.
Ci si aspettava di trovare 100mila geni, se ne trovarono circa 23mila. La cipolla ne ha cinque volte di più.
In questo scorcio di millennio perciò è cambiata la metafora del genoma: non un semplice mosaico di piccole tessere, ma una rete in cui la chiave della complessità di un organismo sta nel modo in cui interagiscono le singole tessere.
Dalla lettura del genoma, quindi, le frontiere si sono spalancate alla sua manipolazione. E la mostra affronta questo tema nelle sue sfaccettature, spiegando che cos’è un OGM – che si ottiene con l’ inserimento di geni da una specie a un’altra- e la differenza rispetto alla tecnica del genome editing -un “copia e incolla” in cui si modifica una certa sequenza senza prendere un gene da un’altra specie.
Questioni ricche di potenzialità applicative e di dubbi etici sui quali si è indotti a riflettere.
Insomma tra questa e le mostre su Darwin e Homo sapiens ce n’è per un allestimento permanente. Ma quand’è che questo Paese si convincerà che investire nell’industria culturale è un buon affare?
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