martedì 15 maggio 2018

CINEMA - Lazzaro Felice Recensione

Qualsiasi cosa si possa pensare di Lazzaro felice, va riconosciuto, e andrebbe riconosciuto da tutti, il coraggio dissennato di Alice Rohrwacher. Di una regista
giovane che pur d’inseguire un’idea, un progetto, una visione del cinema, si butta anima e corpo con tutte le sue capacità - che soprattutto registicamente sono notevoli - e osa, anche a rischio di sbagliare di brutto.
E di sbagli, in Lazzaro felice, ce ne sono molti.  A fianco degli sbagli, però, lampi, intuizioni, gesti talentuosi e arditi, nel segno di una poetica e di un’estetica che si piazzano a cavallo tra il realismo più tradizionale e quello magico, perfino surreale.
Lazzaro felice, infatti, è una favola. Una favola che parte come un film di Olmi e prosegue come una storia pasoliniana, e poi come una vicenda alla Sergio Citti. Una storia senza tempo, senza geografia, se non quella di una tenuta agricola - “l’Inviolata”, dove una marchesa cattiva, regina delle sigarette, coltiva tabacco sfruttando una cinquantina di persone ignare della realtà, trattandole come mezzadri dell’Ottocento -, di un ponte diroccato, e di una Città.
La storia di Lazzaro - un po’ Candide contadino (ma senza la sapienza), un po’ scemo del villaggio sfruttato dai suoi stessi familiari - e del viziato marchesino che lo illude di un’amicizia inesistente. La storia di una morte accidentale, di un finto rapimento, dell’arrivo dei Carabinieri, della liberazione degli sfruttati e del loro ingresso nella Città.
Quella città dove, decenni dopo, qualcuno riapparirà, tornato - come per magia, più che per miracolo - alla ricerca di qualcosa che non troverà mai.

Inutile appellarsi all’implausibilità delle situazioni, dei dialetti che si mescolano, della verosimiglianza geografica o perfino comportamentale: quella di Alice Rohrwacher è una favola, appunto.
Il suo Lazzaro è sì stolido fin quasi all’irritazione, la recitazione di tutti è volontariamente a cavallo tra naturalismo e antinaturalismo con effetti spiazzanti non sempre riusciti, ma la convinzione con cui la regista insegue il suo racconto, e la voglia di creare un mondo e una magia, è tale da risultare a tratti trascinante, emozionante in maniera bizzarra e controversa.
Diverso, e più spinoso, è il discorso relativo a quello cui Lazzaro felice mira, al centro del suo discorso, che non solo non è chiarissimo a noi, ma forse nemmeno a un’autrice che si è lasciata trasportare dalla suggestione senza sapere bene dove questa l’avrebbe condotta.
Se all’inizio del film si è perplessi, e poi via via quasi conquistati, arriva il momento in cui qualcosa si rompe; se già il ritratto del passato, pur favolistico, sapeva d’idealizzato, l’approdo nella Città e nella modernità sembra stonato, un po’ manicheo, e un po’ forzato il suo dover risultare il metro di qualcosa che si è perso, dove questo qualcosa è un’innocenza figlia della bontà d’animo che nemmeno prima, in realtà, era presente.
Il passato, la campagna, non sono per Alice Rohrwacher qualcosa di idilliaco a cui tornare: forse perché, semplicemente, tornarvi non si può. E l’oggi, la metropoli, sono inattuali e inattuabili per chi ha lo sguardo, e il cuore, semplice e puro. Per i Lazzaro di questo mondo, come dell’altro, non c’è un posto, non più.
Ma allo stesso tempo non c’è bene un posto per un altro sguardo, quello dello spettatore, che non sa bene cosa prendere, cosa filtrare, come pensare quello che il film gli sottopone.
È una confusione tutta mentale, quella di Lazzato felice, che forse parte dalla scrittura. Una questione irrisolta di testa che la Rohrwacher cerca di compensare col cuore e l’emozione slegata da ogni razionalità. Col suo coraggio dissennato nell’inseguire la sua idea.
Se, cosa e quanto perdonargli dei suoi errori, nel nome di questa emozione e di questo trasporto (suo, nostro, chissà), è una questione puramente soggettiva.

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