È in uscita, in libreria, La democrazia e i suoi limiti, un saggio di Sabino Cassese, certamente una delle persone più titolate, per profondità di studi ed esperienze, a stimolare una riflessione sul tema. Che è la questione cruciale di questo tempo confuso. Una rivoluzione, parola tante volte invocata, è in corso.
Ma la stessa parola rivoluzione ha, letteralmente, un doppio significato: se dal punto di vista politico essa corrisponde al significato di rivolgimento dell’assetto politico e/o istituzionale, dal punto di vista astronomico indica, invece, il tempo che un astro impiega per tornare nello stesso posto tra le stelle.
Persino la radice etimologica della parola, ci ricorda la Treccani, rimanda, dal latino, a un significato apparentemente contraddittorio: rivolgimento, ritorno. Stiamo vivendo, quasi inconsapevoli, la più grande rivoluzione degli ultimi cinquant’anni. Stanno mutando modelli di produzione, la definizione stessa di classe sociali, la distribuzione della ricchezza, l’assetto geopolitico del mondo (si pensi solo alla crisi dell’Europa). Stanno cambiando ,molto velocemente, i modi di informarsi, di sapere, di comunicare, di stabilire relazioni umane, sentimentali, sessuali.
Il parlamento europeo si prepara ad approvare un preoccupato documento sulle implicazioni etiche, giuridiche, sociali della massiccia e crescente introduzione della robotica nello svolgimento di prestazioni fino ad oggi affidate a funzioni umane. Non siamo a Blade Runner, certo, ma davvero già oggi ciascuno di noi potrebbe dire la frase con la quale inizia il monologo del replicante nel film di Ridley Scott: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare…».
E speriamo di non dover mai pronunciare la parte finale di quell’incipit. L’esito di una rivoluzione di questa portata è incerto. Essa può portare ad una società in cui l’essere umano potrà dispiegare le sue facoltà fino all’e stremo, in cui non esisteranno limiti possibili ai diritti di vivere la vita in una condizione di piena libertà individuale e collettiva, in cui il sapere si diffonderà travolgendo le barriere sociali e ciascuno vivrà godendo delle opportunità per far valere il proprio talento. Può essere, chi ama la vita e non la morte, la libertà e non la dittatura, deve lavorare per questo.
Le grandi rivoluzioni scientifiche richiedono una politica alta e geniale, capace di leggere il mutamento nella sua sconcertante profondità e di elaborare un nuovo lessico. Che sia figlio , però, di un sistema di valori, forte e appassionante. Cassese, nel suo saggio, ci ricorda come, nella sua storia, la democrazia abbia faticato a includere milioni di esseri umani nei suoi processi decisionali. Per lungo tempo milioni di neri, in sistemi detti democrazia, non avevano diritto al voto e in Italia e in Francia le donne hanno potuto partecipare alle consultazioni elettorali solo a partire dal dopoguerra.
È un problema che abbiamo ancora oggi: ricorda Cassese che nel 1960 coloro che vivevano in un paese diverso da quello della loro nascita erano 77 milioni (e molti erano italiani, non dimentichiamolo mai). Oggi sono 244 milioni, 136 dei quali nei paesi sviluppati. Per la stragrande maggioranza questi esseri umani vivono subendo gli effetti di decisioni alle quali non hanno partecipato.
Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo. Non riesce a ritrovarsi e dopo aver demolito tutte le forme di mediazione del rapporto tra governati e governanti si trova sospesa tra la crescente tentazione di forme di potere autoritario che riducano la complessità processuale della democrazia e il suo contrario, la furba utopia di una finta democrazia diretta che in realtà è una nuova forma di partitismo assoluto. Ma la democrazia ha bisogno di essere ripensata, nel tempo di questa caotica rivoluzione.
Si devono immaginare forme di democrazia dal basso, di sussidiarietà, che integrino il lavoro delle istituzioni e responsabilizzino i cittadini nella gestione di segmenti rilevanti della propria esistenza: il lavoro, il quartiere, la scuole dei figli. Una democrazia che delega potere, che diventa cabina di regia di grandi scelte, che agisce in trasparenza assoluta, che è rappresentata non, come accade sempre di più, dai pretoriani di correnti senza anima né politica, ma da cittadini che si formino nel fuoco di esperienze di cittadinanza e nei processi formativi di partiti chiamati a ripensarsi nella società, in orizzontale, aprendosi.
Non ho mai usato la definizione di partito liquido – che non condivido, come considero assurdo il partito pesante e correntizio – ma ho sempre amato l’idea di un partito aperto, nemico dei capibastone di ogni rango e capace di formare, nel senso letterale del termine, generazioni di ragazzi appassionati di politica e non di potere. Partiti capaci di sentirsi una comunità, unita da un comune sentire e da una passione indefessa per il dibattito, per il senso critico, per il dubbio. Questo, luogo di una comunità e agorà della libera ricerca comune, è stata L’Unità.
Spero continui ad esserlo, ce n’è bisogno. Tra qualche giorno negli Stati Uniti si svolgerà la cerimonia di insediamento del nuovo presidente. Credo chiunque capisca che , questa volta, sarà qualcosa di diverso. Sta nascendo qualcosa di assolutamente inedito e la cui portata, da queste colonne previsto in largo anticipo, sarà la storia a misurare. C’è ragione di forte inquietudine.
L’America che Obama ha trovato era un paese sconvolto dall’esplosione della recessione. Dopo otto anni la disoccupazione è al 4,9 e si sono creati 15,5 milioni posti di lavoro. Ovviamente il bilancio della sua presidenza è più complesso e anche contraddittorio. Ma i risultati e la popolarità di Obama, al punto massimo in questi mesi, non hanno impedito la vittoria di Trump. Capita, in politica. E capita con radicalità estrema quando spira un vento di crisi della politica e della democrazia.
Nel momento in cui Barack Obama esce dalla Casa Bianca vale la pena ricordare una sua breve frase: «Credo che saremo giudicati per come ci prendiamo cura del povero e del vulnerabile, del malato e dell’anziano, dell’immigra – to e del rifugiato, di tutti coloro che stanno cercando una seconda possibilità». Così, per ricordarci chi siamo. O chi dovremmo essere.
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