venerdì 27 ottobre 2017

Meditare fa bene, è scientifico

Fino agli Anni ’50 la meditazione è stata prerogativa dei monaci. Poi con i Beatles diventò pratica dei figli dei fiori, seguiti negli anni successivi da calciatori e
attori: meditano Roberto Baggio e Richard Gere. In tempi più recenti è stata la volta degli amministratori delegati delle grandi multinazionali: Rao Dalio (Bridgewater associates) e Marc Benioff (Oracle e Salesforce.com). E oggi si è dato alla meditazione persino Dmitry A. Medvedev, primo ministro della Federazione Russa.

Da qualche anno però la meditazione non si occupa più solo di “benessere psicologico” ed è entrata negli ospedali con molte applicazioni: dal controllo del dolore all’immunologia, dalla cura dell’ipertensione al rallentamento del declino cerebrale.

In che cosa consiste? Che risultati dà e con quali meccanismi agisce?

IN PRINCIPIO. Tutto è iniziato una trentina di anni fa quando Jon Kabat Zinn fondò il Center for Mindfulness all’University of Worcester (Uk) e cominciò a usare la meditazione come strumento terapeutico. Strumento tutt’altro che facile da proporre: nella frenetica vita contemporanea la meditazione di tradizione orientale è pratica difficile. Ma i suoi vantaggi non sono più in discussione: migliora l’attenzione, le abilità cognitive e la memoria, riduce l’ansia e i sintomi depressivi. Non solo.

Alla Brown University di Providence (Usa), Catherine Kerr sfrutta la meditazione per il suo effetto analgesico: sostiene che funziona come una specie di manopola che regola la percezione delle sensazioni sgradevoli. Nel 2010, quando era al Mit di Harvard, ha dimostrato che, se si focalizza l’attenzione sulle sensazioni della mano sinistra, la “mappa” cerebrale corrispondente a quella mano registra una significativa caduta dell’ampiezza delle onde che filtrano le sensazioni lasciando passare solo quelle che superano una certa soglia.

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