martedì 20 febbraio 2018

RECENSIONE FILM - "FIGLIA MIA"

Non ci sono più le capre, questo va detto.
Le capre no, ma ci sono i cavalli, i maiali, i cani e le galline. Perfino i pesci e le anguille. Perché ancora una volta Laura Bispuri cala la sua storia in un contesto
rurale e abbastanza degradato: non più l’Albania livida di Vergine giurata, ma una Sardegna assolata ma ruvida e povera, lontanissima dagli yacht della Costa Azzurra, quella dell’area di Cabras.
Lo scopo di questa scelta - nel contesto di una storia che avrebbe potuto essere raccontata ovunque, visto che si tratta della contesa tra due madri, l’una biologica e l’altra adottiva, per una bambina di dieci anni - è probabilmente figlio della stessa logica alla base del primo film della regista. Ipotizzo: la voglia di raccontare pulsioni e sentimenti ancestrali e antropologicamente radicati in un territorio meno sovrastrutturato di quello urbano.
La scelta è legittima, ci mancherebbe altro, ma col senno di poi, con quello di chi ha visto il film finito, è forse la spia che denuncia la necessità di appigli da parte di un racconto che - proprio come quello di Vergine giurata - è troppo evidentemente costruito e, appunto, sovrastrutturato.

Non è che giri male, Laura Bispuri. Anzi, grazie anche alla fotografia di Vladan Radovic, ancora lui, Figlia mia è anche abbastanza bello da vedere, pur rientrando con tutte le scarpe dentro i canoni estetici e formali di quel cinema d’autore europeo, e spesso sudamericano, che intasa i programmi dei festival con film sempre troppo uguali l’uno all’altro, e che ha un po’ stancato.
No, il fatto è che il suo film, a dispetto delle passioni che racconta, e di quel radicamento passionale di cui sopra, è tutto di testa, scruopolosamente calcolato, attentamente bilanciato, e non lascia spazio per alcuna empatia per due protagoniste che alla fine finiscono col risultare decisamente poco simpatiche. E che contribuiscono al ritratto della maternità come qualcosa di ossessivo e patologico, e di eccessivamente manicheo: una, l’Angelica di Alba Rohrwacher, è una scapestrata ubriacona che si concede a destra e a sinistra e che anche quando cerca di riprendersi la bambina lasciata appena nata, finisce col farlo in maniera scoordinata e tutto sommato egoista; l’altra, la Tina di Valeria Golino, che cerca di sopperire alle sue mancanze biologiche con un carico d’attenzione e vicinanza, anche fisica, del tutto sproporzionati. La maman e la putain, per dirla con Eustache.
La piccola Sara (notevole la giovane esordiente Sara Casu) ondeggia coi suoi capelli rossi e le incertezze di bambina tra queste due donne e questi due modelli, le guarda con fiducia e scetticismo, e non è difficile intuire che sarà lei - dopo una sfacciatamente metaforica rinascita dalla roccia, che viene dopo un’altrettanto sfacciata reintroduzione, via crepaccio, in un nuovo utero da parte di mamma bio - quella destinata a prendere in mano le redini della situazione, e ricondurre le sue madri a un comportamente più equilibrato, e verso un mare che - per fortuna - non si vede, ma sai che sta lì.
Chiede molto alla sua giovane protagonista, Laura Bispuri, ma chiede ancora di più ad Alba Rohwacher e Valeria Golino, che evidentemente gongolavano di fronte a ruoli così melodrammatici e sentiti, tutti estroversi, e che fanno fare di tutto, e si barcamenano con entusiasmo tra una scena d’ubriachezza e uno sguardo d’apprensione bagnato di lacrime; una con improbabili mise anni Ottanta, l’altra con gli abiti che saranno già quelli della sua vecchiaia, tanto per specificare ulteriormente che tipo di donne ci troviamo di fronte.
A volte falliscono nel trovare la misura, le due, ma c'è da dire che non era facile: specie per una Rohrwacher cui tocca anche, come in Vergine giurata, la scena di sesso ruvida e sgradevole, appesantita dalla Bispuri dalla presenza ricattatoria della bambina. E a loro tocca comunque, come per gli animali e il territorio, il ruolo di appiglio per una regista che dovrebbe lasciarsi più andare, ragionare di meno, e scrivere meglio: almeno i dialoghi.

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